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Autoritratto generazionale: nuove drammaturgie al festival «Up To You»

Articolo. Un laboratorio di drammaturgie giovani che sfidano le convenzioni teatrali e narrative, dando voce a temi sociali e personali. Le opere proposte sono scritte da chi le interpreta, creando una connessione profonda tra autore e performer. In un contesto di incertezze, il teatro emerge come uno spazio di sperimentazione

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Quello che non c’è (Foto Carlo Scotti)

C’è una generazione che scrive per raccontarsi, ma anche per interrogare il mondo. Una generazione che prende parola senza chiedere il permesso, che sceglie il linguaggio del teatro non tanto per rappresentare quanto per abitare la complessità del presente. Le drammaturgie autografe – testi scritti, spesso, da chi li porta in scena – sono uno dei segni più interessanti del teatro giovane contemporaneo: un gesto insieme politico e poetico, che mette in discussione le convenzioni del racconto e le forme consolidate della rappresentazione.

Questa tendenza non è nuova, ma si fa oggi sempre più consapevole, attraversando i linguaggi della performance, del teatro di parola, della musica, della danza, della stand-up, del clubbing . Autorialità e performatività si fondono in un’istanza di urgenza e autenticità, in cui l’“io” non è ripiegato su se stesso, ma diventa la chiave per aprire domande più larghe, collettive, sociali.

A dare spazio a queste voci è «Up To You», festival organizzato da «Qui e Ora Residenza Teatrale» nato proprio per valorizzare lo sguardo e la creatività dei giovani. La sua particolarità risiede nella struttura: a selezionare parte del programma è una Direzione Artistica Partecipata composta da persone under 30, mentre la call pubblica che alimenta il cartellone è rivolta a artiste e artisti under 35. Il risultato è un ecosistema che riflette non solo l’urgenza dei temi, ma anche la necessità di ridefinire le dinamiche di potere e selezione nel mondo culturale. Non più gerarchie verticali, ma una rete di alleanze generazionali, una piattaforma dove “giovane” non è una categoria estetica, ma una postura rispetto al presente.

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(Foto Cosimo Trimboli)
(Foto Cosimo Trimboli)
(Foto Cosimo Trimboli)
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(Foto CosimoTrimboli)

Nel ricco programma del festival - in scena a Bergamo, Brusaporto e Scanzorosciate dal 23 al 25 maggio 2025 – ci sono tre spettacoli in la cui centralità delle drammaturgie autografe si manifesta con chiarezza. Tre spettacoli, tre traiettorie diverse, tre visioni che affondano lo sguardo nel reale per trasformarlo in materia teatrale viva. Pur nella loro profonda diversità di linguaggi, temi e formati, condividono una stessa tensione: quella verso nuove forme di racconto. Ognuno, a suo modo, prova a scardinare convenzioni teatrali e narrative per dare voce a ciò che resta ai margini – esperienze invisibili, storie sommerse, vissuti non rappresentati.

Visioni plurali, scritture incarnate

«CA-NI-CI-NI-CA», in scena il 23 maggio alle 20.30 all’auditorium «CULT!» in piazza della Libertà, ha debuttato al «Romaeuropa Festival 2023». È un’opera ibrida e stratificata che unisce l’indagine sociale a una riflessione sulle forme stesse della rappresentazione. Firmato da Greta Tommesani e Federico Cicinelli (in collaborazione con Daniele Turconi), lo spettacolo prende avvio da un tema preciso: lo sfruttamento lavorativo nelle filiere agroalimentari, in particolare nella produzione della salsa di pomodoro. Ma il lavoro drammaturgico non si ferma alla denuncia di un fenomeno, né si rifugia nella retorica pietista che spesso accompagna la comunicazione delle cause sociali. L’obiettivo del progetto è mettere in crisi il punto di vista dello spettatore, costringerlo a confrontarsi con le analogie tra le condizioni dei braccianti e quelle di altri settori lavorativi. Elementi come il senso di responsabilità individuale per il proprio fallimento, l’auto-sfruttamento come forma di dedizione, la salute mentale vista come risorsa produttiva, compongono un affresco disturbante e riconoscibile. Il risultato è una drammaturgia partecipata e inquieta, sostenuta da un rigoroso lavoro scenico, che interroga tanto le disuguaglianze strutturali quanto le nostre convinzioni interiorizzate sul valore del lavoro.

«Ghost Track: tre racconti sulla pista da ballo» in scena la stessa sera alle ore 23 presso Ink Club, è scritto e diretto da Daniele Turconi e interpretato insieme al musicista e sound designer Gianluca Agostini. Lo spettacolo, presentato in anteprima a «Up to you», è un esperimento coraggioso che fonde narrazione orale e linguaggi sonori electro, noise e hardcore, per costruire uno spazio in cui le parole si muovono, si stratificano e risuonano nei corpi. Tre racconti brevi – tre apparizioni, tre fantasmi – prendono vita nella voce dell’unico performer, e si legano attraverso una colonna sonora pulsante, curata dal vivo, che trasforma il palco in una sorta di dancefloor rituale. Il luogo evocato è la provincia, quella dimensione immaginaria e parallela che non è città e non è solo periferia, ma un tempo sospeso, dove le vite si accumulano come tracce non incise: «ghost track», appunto. Non c’è nostalgia, ma c’è eco. E c’è la volontà di destrutturare la forma-spettacolo per avvicinarsi a un linguaggio ibrido, sensoriale, che dia spazio alla parola, alla musica e al corpo come strumenti di racconto emotivo e politico. Un lavoro che sperimenta forme, ma resta profondamente narrativo, radicato nella necessità di parlare da sé e per sé.

Con «Quello che non c’è», in scena sabato sera all’auditorium «CULT!», Giulia Scotti firma un’opera intima e struggente che parte da una vicenda familiare per interrogare il silenzio, la memoria e il potere del racconto. È la storia di Daniela, una zia mai conosciuta, mai nominata, una presenza assente che ha attraversato la vita dell’autrice come un vuoto inspiegabile. Fino a un giorno, a venticinque anni, quando il padre decide di raccontare tutto. Senza filtri, senza omissioni. Come se avesse atteso quel momento da una vita. La drammaturgia, vincitrice del Premio «Tuttoteatro alle arti sceniche Dante Cappelletti 2023», nasce da quella confessione paterna e diventa un gesto di trasmissione: quasi tutto è vero, ma alcuni pezzi sono inventati. Quello che conta è il tentativo di salvare, attraverso il racconto, ciò che la morte e il silenzio hanno cancellato.

Il lavoro di Scotti si muove su un registro essenziale, che accoglie la fragilità come materiale scenico e drammaturgico. Il racconto diventa un archivio affettivo, dove l’autobiografia si trasfigura in esperienza condivisa, dove il privato parla a chiunque abbia avuto una storia che non si poteva dire.

Un teatro che interroga, non consola

Quello che emerge da queste tre proposte è un panorama variegato ma coerente, in cui la drammaturgia autografa si fa strumento di resistenza e di costruzione identitaria. In questi lavori si fa spazio un continuo attraversamento tra vissuto e visione, tra biografia e gesto collettivo. L’autore è anche performer, regista, a volte tecnico del suono: è un maker a tutto tondo, che scrive con il corpo e agisce con la parola.

«Up To You» conferma così la sua vocazione a essere laboratorio di futuro. Un futuro che non è un orizzonte lontano, ma un presente in costruzione, fragile, incerto, pieno di domande. E forse è proprio in questa incertezza che si nasconde la potenza del teatro giovane: nel suo essere campo aperto, spazio di prova, esercizio continuo di immaginazione radicale.

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