93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Filamenti #6: il nazifascismo e la seduzione delle coscienze, un viaggio attraverso il lavoro teatrale di Swewa Schneider

Articolo. Il lavoro sulla memoria si concentra principalmente sul racconto di chi ha subito lo sterminio, mostrando raramente le dinamiche e i percorsi di chi ha aderito al nazi-fascismo. La ricerca teatrale di Swewa Schneider ci racconta invece come è stato facile prendere parte al nazismo negli anni Quaranta in Germania e quali siano le fascinazioni e i pericoli dei regimi totalitari

Lettura 6 min.
«Wolfzeit – il tempo dei lupi» di Swewa Schneider

Gennaio è il mese dedicato alla memoria dell’Olocausto. Anche nella nostra città e provincia moltissime iniziative interessanti, incontri, spettacoli teatrali, concerti ripercorrono le vicende atroci dello sterminio, restituendone diversi aspetti attraverso le storie di coloro che li hanno vissuti. Eppen, ha riportato in uno dei recenti articoli sul tema, questa frase centrale di Primo Levi: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Mi colpiscono molto gli aggettivi che Levi usa: «sedotte e oscurate». Cosa c’entra quindi la seduzione con il nazifascismo?

Il lavoro sulla memoria, fatto nei quasi ormai ottant’anni in Italia, si è concentrato principalmente sul racconto del punto di vista di chi ha subito lo sterminio. Al centro della narrazione le storie di ebrei discriminati, deportati, sterminati. Spesso, si racconta di chi li ha protetti e salvati. Ma nei nostri teatri e biblioteche rarissime sono le storie che parlano queste vicende dall’altra parte, ovvero dalla parte di coloro che più o meno direttamente hanno promosso e perpetuato le discriminazioni di cui parliamo.

Questo dispositivo della memoria ha permesso da un lato di sancire la sacrosanta separazione tra bene e male e di fare sentire la voce dei perseguitati, ma dall’altro ci ha allontanato dalla prospettiva degli oppressori. Non conosciamo la storia dal loro punto di vista e affrontarla è quasi un tabù. Quello che pensiamo tutte le volte che vediamo un film, uno spettacolo, un incontro di questo tipo è che, giustamente, noi non faremmo mai quello che i nazisti e i fascisti hanno fatto agli ebrei. Il problema è che questa modalità di restituire la memoria può avere paradossalmente l’effetto di confortarci, piuttosto che quello di farci muovere verso nuove domande.

Eppure Levi ci avverte «le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Non siamo immuni quindi dalla seduzione dei regimi e forse lo siamo ancora meno se ci accomodiamo in un tipo di narrazione distanziante in termini di tempo (queste cose sono successe in passato e non si ripeteranno) e di posizionamento (io sono sempre dalla parte giusta). La domanda quindi è, come includere nel dispositivo della memoria una riflessione che racconti anche il punto di vista di coloro che sono stati «sedotti e oscurati» dal nazifascismo? Così da capire quanto sia facile scivolare dentro questo tipo di manipolazione della realtà.

È interessante, da questo punto di vista, guardare per esempio all’esperienza dei discendenti dei nazisti e dei fascisti, ovvero delle generazioni che hanno dovuto rielaborare il trauma di avere genitori responsabili delle atrocità che conosciamo. L’autrice franco tedesca Tania Crasnianski ha scritto nel 2016, «Enfants de nazis», cioè «I figli di nazisti» (Bompiani, 2017), un libro molto interessante che racconta la vita delle figlie e dei figli dei gerarchi nazisti. Il volume fa un bilancio degli effetti che le azioni dei genitori hanno avuto sui figli, ormai anche loro negli anni finali della loro esistenza. La tesi è che le azioni dei genitori li hanno condizionati in modo profondo, portando alcuni a vivere nel culto della personalità dei padri, come la figlia di Heinrich Himmler o di Hermann Göring; altri a rifiutare completamente la loro discendenza, come il figlio di Hans Frank o di Josef Mengele. Ma, il libro di Tania Crasnianski è interessante anche perché ci porta nella vita famigliare e intima dei gerarchi nazisti, mostrandoci com’era costruito e di cosa era permeato il loro mondo. Ci mostra l’inquietante continuità tra il mondo familiare borghese e quello criminale nazista. Questa dimensione di racconto ci fa in parte empatizzare con i carnefici, costringendoci a interrogarci su dove stia il bene e il male e dove stiamo noi rispetto a questa narrazione.

È a questi temi che si connette anche un recente lavoro teatrale – a mio parere un gioiello nella variegata proposta di spettacoli sulla memoria – messo in scena dalla bravissima Swewa Schneider con la regia di Gigi Gherzi. Lo spettacolo, prodotto dalla compagnia bergamasca Piccolo Canto, s’intitola «Wolfzeit – il tempo dei lupi» e racconta la vicenda personale di Swewa che scopre e ricostruisce la storia semi-segreta di suo padre, militare dell’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale. «Wolfzeit – il tempo dei lupi» nasce da una scatola piena di foto e documenti che Swewa riceve da Irma, sua zia in Germania. Questa scatola contiene le lettere che il padre di Swewa aveva scritto dal fronte nei primi anni quaranta. Alla luce di questa storia interessante che mischia davvero il personale e il politico, come direbbero le femministe, ho deciso di intervistare Swewa.

CP: Come ti è venuta l’idea di fare questo spettacolo?

SW: Un giorno mia sorella che viveva in Germania mi ha detto: «la zia Irma ci ha dato tutte le lettere del papà della guerra». Uno scatolone enorme. Ho iniziato a leggere e a ricostruire fatti che mio padre non mi aveva mai raccontato. Leggendo, ho scoperto che lui da giovanissimo faceva parte la gioventù hitleriana, un’organizzazione giovanile – in quegli anni diffusa su tutto il territorio tedesco – fondata dal Partito Nazionalsocialista nel 1926 per accogliere i giovani e prepararli a servire nelle forze attraverso un sistema di addestramento militare e paramilitare. Dopo quell’esperienza si era arruolato ed era entrato nell’aereonautica, come navigatore. Ci sono lettere scritte dai 18 ai 23 anni, dove racconta dell’esperienza straordinaria, quasi da favola di volare tra le nuvole sopra la Germania verde. Era poi partito per la guerra, dove aveva combattuto fino al 45.

CP: Cosa voleva dire fare parte della Hitlerjugend? E quali aspetti di fascinazione, di seduzione che hai capito essere centrali per tuo padre in quell’esperienza?

SW: Per capire l’ideologia al centro della Hitlerjugend, ho letto il «Mein Kampf» (manifesto autobiografico del 1925 del leader del partito nazista Adolf Hitler, ndr) in italiano e poi in tedesco. È stato un lavoro duro e difficile. Mi hanno colpito, tra le molte cose, i capitoli sui giovani. Mi ha colpito vedere come Hitler puntasse tutto su di loro. Sul culto dei corpi, dello sport, della competizione, del pericolo, della maschilità ostentata. Dalle lettere di mio padre ho percepito indirettamente anche il senso di gioia, di unità, di esaltazione, di promessa, che far parte della Hitlerjugend significava. I ragazzi erano conquistati da un sogno d’ invincibilità e onnipotenza. Hitler diceva «Noi siamo vecchi, ma quale meraviglioso materiale umano sono questi giovani».

CP: Cos’altro hai scoperto?

SW: La contraddizione che mio padre aveva, tra i suoi sette fratelli, un fratellino disabile in carrozzina, che veniva nascosto dalla famiglia perché il regime non lo voleva a scuola con gli altri. Questo ragazzo molto intelligente, a cui mio padre aveva insegnato a leggere e scrivere, collezionava album di figurine di Hitler e adorava il regime. Quindi questa promessa era capace paradossalmente di conquistare anche chi non c’entrava nulla col regime. Questo delirio di onnipotenza collettivo, vissuto dai ragazzini e dai ragazzi dai dieci ai vent’anni si è poi violentemente frantumato alla fine della guerra, creando un trauma collettivo che non è stato rielaborato. Io li definisco come ragazzi che a ritmo di fanfara e parata sono andati come carne da macello.

CP: Cosa ha significato per te entrare in questa storia?

SW: Entrare nel mondo di mio padre, leggere le sue lettere dal fronte non è stata una scoperta serena e nemmeno un confronto facile. Io qualcosa sapevo, ma vagamente, perché in famiglia non se ne parlava affatto. Io poi ero l’ultima dei miei fratelli, con una distanza di cinquant’anni da mio padre. Quasi una nipote, per certi versi. Considera tra l’altro che in Germania questo tema è ancora un tabù. Comincia ad essere affrontato lentamente dalle seconde generazioni. Perché le generazioni precedenti, quelle per intenderci degli anni Cinquanta-Sessanta sono entrate in conflitto con i loro genitori e tendenzialmente non c’è stata un’apertura o tentativo di comprensione. In un seminario, una volta, una ragazza mi ha dedicato la frase di Rumi, un poeta mistico persiano che dice: «Al di là dell’idea del bene e del male c’è un campo, io ti aspetterò lì». Per me è stato un po’ questo, dover sospendere il giudizio, per entrare in quel campo e incontrare di nuovo mio padre.

CP: Quindi, questo lavoro, «Wolfzeit – il tempo dei lupi», secondo te di cosa parla?

SW: Una signora tedesca, dopo aver visto lo spettacolo, mi ha detto «tu hai fatto un lavoro sulla memoria familiare storica e sul perdono». Effettivamente grazie a questo lavoro credo di avere anche un po’ perdonato, almeno sul piano più famigliare. Ho perdonato perché in parte ho capito. Ho capito che cosa c’era dietro quell’essere sempre solido, impenetrabile, quei silenzi, quell’assenza delle volte nello sguardo di mio padre. Leggendo saggi di psicologi sull’eredità della guerra ho visto il suo identikit. Una persona rigida, che ogni tanto si arrabbiava, che mi diceva di non piangere, di non fare la femminuccia, che per esempio non andava mai dal medico. Per dirti che lui a sessant’anni si lanciava dal trampolino di testa a dieci metri. Quindi questa cosa ho capito, che arriva da lì, dall’imprinting della Hitlerjugend. Ovviamente, da antifascista convinta, mi si sono mosse moltissime dolorose domande. Ho per esempio ritrovato un piccolo scrigno con dentro dei portachiavi con la svastica, un bicchierino con Hitler. Ecco questo percorso dentro il suo mondo, mi ha portato a pensare che questi cimeli fossero per lui più che una reale adesione al nazismo, il residuo di un sogno perso. Il sogno perduto dei giovani di quella generazione a cui l’infanzia e l’adolescenza è stata rubata e sostituita da una sorta di delirio che li ha imprigionati.

La storia di Swewa è preziosa, perché ha il coraggio di entrare in una zona della memoria collettiva sulla seconda guerra mondiale ancora poco esplorata. «Wolfzeit – il tempo dei lupi», recitato con adesione e verità e con una drammaturgia bene costruita – scritta a quattro mani con Gigi Gherzi, che ha fatto anche una bella regia d’impatto – è un lavoro coraggioso e dall’impianto solido, capace di far muovere nuove domande allo spettatore sul tema della memoria: cosa avremmo fatto noi se fossimo vissuti in quel paese e in quel periodo? Saremmo davvero riusciti noi, come dice Levi a non farci «sedurre e oscurare» dal regime? E che cosa oggi ci seduce e ci oscura?

Lo spettacolo, vincitore del premio «Experimenta 2021» e finalista del «Premio Palio Poetico di Ermo Colle 2021», andrà in scena in prossimo 15 aprile a Burago Molgora, a Monza. Speriamo di poterlo rivedere presto anche a Bergamo.

Approfondimenti