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Perché andare a vedere “Arlecchino servitore di due padroni”

Articolo. Lo spettacolo dal 6 al 9 febbraio al Creberg. Con la regia di Valerio Binasco e Natalino Balasso nel ruolo della celebre maschera. Un classico che non ha ancora smesso di parlare e di mostrarsi inedito

Lettura 4 min.
(“Arlecchino servitore di due padroni”)

Probabilmente è abbastanza banale iniziare così, citando Italo Calvino. Ma in fondo è necessario e utile. “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” è già una buona motivazione dell’importanza di questa versione di “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni con la regia di un nome importante del teatro italiano quale è Valerio Binasco (cinque volte premio Ubu e dal 2018 anche Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino) e la presenza sul palco di Natalino Balasso nel ruolo di Arlecchino (Creberg Teatro, dal 6 al 9 febbraio, biglietti ancora disponibili).

Senza dimenticare “d’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima” e “i classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti”. Tre motivazioni del “perché leggere i classici” che si sposano alla perfezione anche con il teatro.

“Arlecchino servitore di due padroni” è un grande classico della Commedia dell’arte, scritto nel 1745 e ancora oggi portato in scena. Immortale la versione di Giorgio Strehler che, reinterpretando la tradizione goldoniana, debuttò nel 1947 al Piccolo Teatro di Milano con uno spettacolo di grandissimo successo portato per anni in tutto il mondo – con Marcello Moretti prima, poi Ferruccio Soleri (che è entrato nel Guinness dei primati per la più lunga performance di teatro nello stesso ruolo) e oggi con Enrico Bonavera nei panni del protagonista, originariamente chiamato Truffaldino.

Goldoni, pur avendo già iniziato il suo percorso di riforma, in questo caso scrisse la commedia come canovaccio (per Antonio Sacco) in modo da lasciare spazio ancora all’improvvisazione. Nelle successive riscritture, il testo diventò un copione fisso. Binasco si allontana dalla regia di Strehler, dalla Commedia dell’Arte e dal confronto con la versione del grande regista, toglie le maschere e i lazzi per concentrarsi sulla storia e i personaggi evidenziandone il lato malinconico e cupo.
Proprio perché è una proposta diversa, che ha già stupito positivamente critica e pubblico, meriterebbe di andare a vederla a teatro. Però, se servono altri motivi, ve ne forniamo alcuni.

Perché è Arlecchino Servitore di due padroni

È abbastanza ovvio, lo so, ma proprio per il valore dell’opera e il peso nella cultura italiana è consigliabile la visione. Che voi apprezziate già il teatro oppure no, che abbiate incontrato il testo studiando letteratura italiana (oh, che dolore la storia e i testi teatrali “infilati” nelle pagine di antologia) oppure siate “novelli” a riguardo, questo è un testo fondamentale. Racconta anche la realtà dell’epoca: la nascente borghesia, il contrasto tra giovani e anziani, il ruolo della donna (a riguardo c’è anche un punto più avanti).

Perché è un classico e perché non ha ancora smesso di parlare e di mostrarsi inedito

Ho citato ancora un po’ Calvino per ribadire il concetto. Che lo stesso Binasco sostiene: “A chi mi chiede: come mai ancora Arlecchino? rispondo che i classici sono carichi di una forza inesauribile e l’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola”. Il regista piemontese ha così “frantumato” la tradizione e mostra l’umanità di questi personaggi, così contemporanei. Arlecchino è famelico, bugiardo, disperato e arraffone, un poveraccio che sugli equivoci costruisce una specie di misero riscatto sociale.

Perché è diverso da quello che già conoscete

Il teatro offre punti di vista e Binasco, come anticipato, svela il lato più tragico – ed anche tenero – dell’opera. Toglie maschere, salti e capriole, si allontana da Strehler, per concentrarsi sulla complessità del personaggio e della storia. “Le invenzioni di Strehler per rivisitare (per quanto possibile) la Commedia dell’Arte sono insuperabili, e si sono espresse con una nettezza che rende inutile e frustrante qualsiasi tentativo di incamminarsi sulla medesima strada – spiega il regista – Non è mia intenzione fare uno spettacolo ispirato alla Commedia dell’Arte, così come non userò le maschere della tradizione. Per quanto sarà possibile, tenterò di dare a questo testo un sapore moderno, cercando di restituire l’umanità e la credibilità dei personaggi anche quando la tentazione del formalismo teatrale fine a se stesso ci sembrerà irresistibile”.

Perché il teatro parla dell’uomo (e Arlecchino ancora di più)

Arlecchino appartiene così alla vita di tutti i giorni, ci pare più vicino. Tolto tutto ciò che è tipico della commedia dell’arte, resta l’uomo, la sua vita, fatta di desideri e necessità: “Se decido di credere alla loro vita (dei personaggi, ndr), allora forse il modo di esser ‘ridicoli ’ diverrà involontario, il ritmo generale più incerto, e la comicità inconsapevole e sospesa... Insomma tutto il grande artificio scenico, anziché esaltare i sublimi meccanismi della teatralità, diverrebbe la testimonianza di un ben più prosaico e malinconico inseguirsi di desideri irrealizzati, di incontri mancati per un soffio, di simmetrie involontarie...” sostiene Binasco.

In questa commedia, (al pari di altre commedie del ‘primo’ Goldoni) io avverto il richiamo di qualcosa che ha a che fare con un ‘certo tipo di umanità’, la cui anima travalica i limiti del teatro per il teatro, e chiede di essere raccontata con maggiore realismo, con maggiore commozione. È il richiamo di una tipologia umana di vecchio stampo. L’Italia povera ma bella di sapore paesano e umilmente arcaico che è rimasta attiva a lungo nel nostro Paese, sia sulla scena che nella vita reale, ha abitato il nostro mondo in bianco e nero. Si è seduta ai tavoli di vecchie osterie, ha indossato gli ultimi cappelli, ha assistito al trionfo della modernità con comico sussiego. Ci ha fatto ridere e piangere a teatro e al cinema con le ‘nuove maschere’ dei grandi comici del Novecento, e poi è svanita per sempre, nel nulla del nuovo secolo televisivo. La voce di questa umanità è quella della Commedia”.

La questione femminile, sempre attuale

Goldoni dà voce alle figure femminile e ai cambiamenti che riguardano le donne all’interno della società. Lo manifesta in altre opere come “La Locandiera”, ma anche qui non manca il suo sguardo attento, tratteggiando Clarice, Beatrice e Smeraldina. La prima rivela l’atteggiamento della società patriarcale dell’epoca, che mette le donne da parte e le sottomette, non le considera. La seconda si dimostra intraprendente e coraggiosa. Si veste e poi traveste da uomo e dichiara “voglio la mia libertà”. Smeraldina, poi, si fa portavoce delle donne. Riflessioni e ritratti di allora, che ci parlano anche oggi.

Di motivi per non perdersi questo appuntamento ce ne sarebbero tanti altri. Chi vuole approfondire può partecipare all’incontro di venerdì 7 febbraio, alle 18, al Creberg Teatro con la compagnia, condotto da Maria Grazia Panigada, Direttore Artistico della Stagione di Prosa e Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti.

Non è solo per l’opera in sé, ma anche il valore del teatro come spiega bene Emma Dante: “Non si può vivere senza, l’umanità non può vivere senza il teatro. Forse un giorno si potrà vivere senza il cinema, ma senza il teatro è impossibile. Almeno finché esiste l’uomo, finché esiste lo specchio, il riflesso di noi stessi che respira, vivo come noi. L’uomo ha bisogno dell’uomo, di essere riconosciuto, di vedersi di fronte e farsi delle domande, per cui non penso che il teatro morirà mai. […] Non è legato alle mode il teatro. La sua vocazione principale è quella di indagare nell’umano, nella forma vivente”.

Sito Fondazione Donizetti

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