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Puskas, Facchetti e altri miti. Quando il calcio racconta la Storia

Intervista. Debutta a Seriate il 20 agosto per deSidera Festival “Puskas chi?”, spettacolo scritto da Gianfelice Facchetti e dedicato alla leggenda del calcio ungherese. Un’occasione per riflettere sul ruolo storico e sociale del pallone

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Ferenc Puskás (Sandor)

Puskas chi?” facile rispondere che è stato uno dei migliori attaccanti di tutti i tempi e un’icona ungherese. Un calciatore leggendario, che a seguito della repressione sovietica della rivoluzione del 1956 scelse di vivere al di qua della cortina di ferro.

Stella della Grande Ungheria e del Real Madrid, Ferenc Puskás è al centro dello spettacolo “Puskas chi?” scritto da Gianfelice Facchetti, che l’attore Fabio Zulli e il regista Pablo Solari porteranno per deSidera Teatro Festival a Seriate giovedì 20 agosto presso il Teatro Tenda della Biblioteca (via Italia, 58, ore 21). L’evento è a ingresso libero (senza prenotazione), all’interno del programma Se...state a Seriate 2020.

Abbiamo parlato di Puskas, ma anche di calcio, teatro, politica e ricordi del passato con l’autore, Gianfelice Facchetti, attore, drammaturgo e regista teatrale nonché figlio di un’altra icona, Giacinto Facchetti, calciatore dell’Inter e della Nazionale italiana.

MM: Lo spettacolo nasce da un suo interesse personale per Puskas?

GF: È stato più un lavoro su commissione. L’attore Fabio Zulli mi ha detto che gli sarebbe piaciuto occuparsi di Puskas, io sapevo che non ce l’avrei fatta a seguire lo spettacolo, ma scriverlo mi sembrava una bella opportunità. Puskas negli ultimi anni della sua vita era affetto dal morbo di Alzheimer e ho usato questo aspetto a livello drammaturgico: è il medico che lo ha in cura a recuperare i suoi ricordi, che si intrecciano in una vicenda sportiva e storica più grande.

MM: Lei lo scorso gennaio aveva debuttato con “La Tribù del calcio”, questo lavoro su Puskas è stato scritto durante il lockdown o era già in un cassetto?

GF: L’ho scritto concluso appena prima dell’inizio del lockdown. Ero andato via una settimana per Carnevale, promettendo a Fabio Zulli che gli avrei consegnato tutto in tempi rapidi. Doveva debuttare al Teatro Oscar di Milano, ma sono contento che la prima sia nella bergamasca, anche se io non sarò presente.

MM: Puskas è lo sportivo simbolo della storia ungherese. Secondo lei oggi esiste un Puskas, nel calcio o in altri sport, che sappia legarsi in modo così forte alla propria nazione?

GF: È molto difficile, questa fusione di identità fra atleti e popoli interi accade in situazioni particolari, dove è in corso un processo di emancipazione. Il concetto stesso di identità è entrato in crisi, è difficile trovare un simbolo che includa tante persone. Questo lo si vede anche a livello delle squadre nazionali.

MM: In che senso?

GF: Un tempo era impensabile rinunciare a una partita in Nazionale, anche solo a un’amichevole. Oggi è tutto subordinato ai club. Neanche gli allenatori hanno più questo legame. Anche per questo non ci sono più i grandi cicli sportivi dei club nazionali. Ma lo dico senza nostalgia: è il frutto di una congiuntura storica più complessa. Il calcio nazionale era usato anche per distogliere l’attenzione dalla repressione e dalla mancanza di libertà. Molte partite si caricavano di un valore simbolico dato dalla storia. Bello, ma fino a un certo punto. È anche bene che certe cose siano superate e rimanga solo la sfida sportiva.

MM: È vero che suo padre, nel 1958, fece un provino con il Milan alla presenza di Puskas, che era scappato dall’Ungheria prima di andare al Real?

GF: Sì, anch’io ho scoperto questo episodio scrivendo lo spettacolo. Non ricordo se l’anno esatto fosse il 1958, ma la storia del provino è vera.

MM: Ha mai sentito suo padre parlare di Puskas?

GF: Ho trovato foto di archivio del loro post carriera, erano insieme in qualche ricorrenza o celebrazione della Fifa. I grandi miti del calcio si riconoscevano fra loro, era una sorta di Olimpo molto rispettoso.

MM: Qual è il campione di oggi di cui lei parlerebbe come un eroe alle nuove generazioni?

GF: Io vedo tante figure positive. Da tifoso interista apprezzo molto Lukaku, mi sembra capace di trasmettere messaggi positivi e di dire quel qualcosa di più. Potenzialmente i calciatori adesso hanno più opportunità di farsi sentire rispetto a prima: non serve più una carriera intera per diventare figure di riferimento, basta un gol, una stagione. Hanno spazi mediatici con cui potrebbero veicolare messaggi costruttivi.

MM: In America è ripartita la Nba e tutta la lega ha scelto di dare un messaggio fortissimo contro il razzismo. Perché nel calcio questo non succede mai?

GF: C’è una forte dispersione: il campionato di calcio una settimana si occupa di un’emergenza e quella dopo di un altro tema. È difficile per il pubblico orientarsi nella quantità di messaggi che arriva ogni giorno. Non sappiamo di volta in volta riconoscere se sia più urgente occuparsi dell’abbandono dei cani, del clima, della fame nel mondo. Forse bisognerebbe avere un po’ più di coraggio e scegliere dove puntare, per dare un messaggio più incisivo. Il rischio è parlare di un tema delicato solo per parlare di se stessi. C’è molto protagonismo.

MM: Nel 1964 la Grande Inter batté il Real di Puskas vincendo la Coppa dei Campioni. Lei non era nato, ma che ricordi ha di quella partita?

GF: Papà aveva debuttato in Serie A nel maggio del 1961, e dopo 3 anni si trovò di fronte questi mostri sacri. Uno squadrone. Quando entrarono in campo, mio papà, Mazzola e gli altri interisti rimasero imbambolati. Fortuna arrivò Suárez, che aveva più esperienza e aveva già vinto il Pallone d’oro, a dire loro di svegliarsi. Non era semplice trovarsi di fronte alla squadra più forte di quegli anni.

MM: In molti suoi spettacoli teatrali (“Bundesliga 44”, “Mi voleva la Juve”, “La tribù del calcio”) compare il football. Quanto è difficile portare il calcio a teatro? Solo lei e Buffa ultimamente avete compiuto questo “azzardo”.

Il teatro è sempre stato restio a parlare di sport e di calcio in particolare, ritenuto adatto a gente non all’altezza della cultura. Senza volere fare confronti, l’operazione di Buffa è partita da Sky e, grazie anche alla popolarità televisiva, ha potuto fare circolare delle storie ben raccontate. Io ho cominciato un po’ prima. Nel 2005, con “Bundesliga 44”, raccontavo la Shoah a partire da un episodio calcistico narrato da Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”. Parlare di calcio o di altro per me non fa differenza, anche se all’inizio mi guardavano di traverso. Mi interessa l’umanità che racconta se stessa, che lo faccia su un campo di calcio o meno non cambia.

Sito deSidera Teatro Festival

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