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Chi ha una disabilità ha pure una sessualità. E bisogna parlarne

Intervista. Perché in Italia è così difficile raccontare la sessualità delle persone disabili? Ne abbiamo discusso con la psico-sessuologa Caterina Bossa in vista della sua partecipazione al Corso di formazione “Affettività e sessualità nella disabilità” promosso dalla Cooperativa Patronato San Vincenzo che si terrà a partire dal 18 marzo

Lettura 4 min.
(Galina Chet)

Tra i superstiti “invisibili” di questa pandemia ci sono i disabili e le loro famiglie che, in quest’anno appena trascorso, hanno dovuto fare i conti con un totale abbandono da parte delle istituzioni. Mancanza di accesso alle cure mediche, isolamento dei bambini e degli adolescenti con autismo che hanno visto azzerati i loro progressi e le loro routine. Il tutto unito all’assenza di un supporto concreto nel caso di gravi patologie fisiche o psichiche.

Accanto all’imbarazzante silenzio dello Stato e di un Governo che continua a istituire ministeri (rigorosamente senza portafoglio), piuttosto che puntare sulla parificazione delle opportunità in ogni ambito, ci sono realtà che hanno addirittura il coraggio di proiettarsi in avanti. È il caso della Cooperativa Patronato San Vincenzo (con AFP Patronato San Vincenzo, Ufficio Pastorale della Diocesi di Bergamo in dialogo con l’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Bergamo) che organizza il corso “Affettività e sessualità nella disabilità” a partire dal 18 marzo, all’interno del progetto Tantemani, che si occupa di sostenere il lavoro delle persone con disabilità per creare “uno spazio aperto a tutti i tipi di abilità”.

In questo contesto si è manifestata la necessità di un confronto aperto che chiamasse in causa figure di professionisti in grado di dare il loro contributo su un tema tanto caldo – quanto scomodo – per l’opinione pubblica: il rapporto tra disabilità e sessualità.

Per saperne di più abbiamo raggiunto telefonicamente la dottoressa Caterina Bossa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e sessuologa clinica, che collabora con il Centro di ricerca del Crocetta di Torino e svolge incontri sulla genitorialità negli asili nido, asili e scuole elementari.

CP: L’affettività e la sessualità sono due bisogni che stanno alla base del benessere psico-fisico della persona. Perché l’Italia è così indietro rispetto ad altri Paesi europei quando si tratta di riconoscerli anche alle persone con disabilità?

CB: In Italia un aspetto importante che incide profondamente è la presenza di una cultura che si caratterizza per una forte impronta religiosa. Bisogna quindi tenere conto del fatto che già la sessualità di per sé è considerata un argomento sconveniente. In più accostare la parola sessualità alla disabilità significa generare un doppio tabù.

CP: Non ne bastava uno? Scherzi a parte…

CB: Ci sono delle tematiche che sono considerate scomode a prescindere, senza che siano necessariamente legate alla disabilità. Della sessualità nel caso specifico, si parla per ridere ed è raro che si facciano discorsi seri su questo tema. Quando in clinica riceviamo richieste di consulenza per disturbi sessuali è molto comune che i pazienti tendano ad assumere un atteggiamento reticente. Ciò avviene perché non si fa psico-educazione, non si fanno corsi a scuola. In più quando la si unisce ad altre tematiche come ad esempio la sessualità nell’anziano, non solo del disabile, o dell’omosessualità, si generano ulteriori complessità che necessitano di essere portate alla ribalta.

CP: Serve un terapista sessuale, no?

CB: Ci son diversi punti di vista in merito. In altri paesi europei si tratta di una professione riconosciuta e ambivalente. Tuttavia, il rischio che si corre quando si parla della sessualità, è di intenderla come la mera soddisfazione di un bisogno fisico e meccanico. La mia opinione e quella del gruppo di cui faccio parte è che essa si compone al contrario di una dimensione emotiva, sensoriale, relazionale. Perciò non vogliamo rendere superficiale questa idea o farla diventare, come spesso accade quando si cerca di promuovere iniziative del genere, una professione che percepisce soldi in cambio di sesso. È uno dei motivi per i quali penso che in Italia sia difficile definire i contorni di una figura del genere, sia dal punto di vista giuridico che etico.

CP: L’assenza di un dibattito pubblico può essere dovuta al fatto che la disabilità diventa un tratto talmente preponderante da oscurare la necessità di esprimere una parte così importante della propria intimità?

CB: La questione centrale risiede nel fatto che il corpo delle persone con disabilità non viene proprio sessualizzato. Spesso perché ci sono bisogni che sono considerati più impellenti e che sembrano per certi versi più “evidenti”. Si parte in primis dalla necessità di dare alla persona una autonomia su quelle che sono le attività quotidiane, poi si punta via via ad altri obiettivi che fanno in un certo senso passare in secondo piano la sessualità. Ce se ne dimentica o si finge di non vedere.

CP: Una soluzione potrebbe essere uscire dall’ottica dell’assistenzialismo?

CB: Secondo me ridurla a qualcosa di esclusivamente assistenziale significa associare la sessualità delle persone con disabilità ad un ambito clinico o patologico. Ma la sessualità se ci sono i presupposti può essere anche essere vissuta come un bisogno naturale, sano. Non ha sempre senso che ci sia una costruzione dietro. Sicuramente un aspetto su cui riflettere è che anche quando la sessualità potrebbe essere sperimentata autonomamente dalla persona, la tendenza è quella di assumere un approccio medicalizzante.

CP: Parlando dei giovani, nel caso di disturbi dello spettro autistico, avere consapevolezza della propria sessualità e poterla esprimere, può, in una fase delicata come l’adolescenza, migliorare le capacità di relazionarsi?

CB: Partirei col precisare che l’educazione sessuale dovrebbe iniziare molto prima, già durante l’infanzia. Spesso si arriva a delle situazioni nelle quali intervenire in adolescenza significa essere in ritardo. Capire come relazionarsi con il proprio corpo aiuta ad acquisire consapevolezza di sé ma bisogna evitare di fare confusione. L’affettività può anche esprimersi come un bisogno di vicinanza fisica, di abbracci, carezze. Non bisogna sempre ridurre tutto alle manifestazioni più esplicite riconducibili alla sfera genitale. Anche perché in situazioni così complesse come quelle delle persone con autismo, intervengono, come sappiamo, difficoltà nel linguaggio o anche semplicemente nel contatto visivo. Si tratta di dinamiche così molteplici e delicate da rendere impossibile definire una strada giusta a priori.

CP: Quindi prima bisognerebbe fare educazione all’affettività e poi alla sessualità, distinguendo tra disabilità intellettive e fisiche?

CB: Certo, diversificare le situazioni è fondamentale. Ci sono casi nei quali la disabilità fisica subentra in una seconda fase della vita, a seguito di un incidente, per esempio. Mentre le disabilità intellettive sollevano altri livelli di complessità e necessitano di altri tipi di approcci. Per cui si tratta non solo di distinguere tra disabilità intellettive e fisiche ma di andare a delineare in base a quelle che sono le necessità di ogni persona dei percorsi individuali o tuttalpiù di coppia. Racchiudere tutto in un unico pentolone non solo è irrealistico ma anche ingiusto. Bisogna tenere conto del fatto che ogni persona, al di là della disabilità, ha una sua storia, un suo vissuto, dal quale è impossibile prescindere.

CP: Come viene percepita la disabilità in ambito familiare?

CB: Il dato più evidente è che le famiglie si sentono sole, abbandonate a sé stesse. Per le ragioni che le spiegavo prima: capita che per imbarazzo, vergogna, i familiari non sappiano come comportarsi. Il risultato è che di fronte al caos si vada alla disperata ricerca di figure che siano in grado di dare risposte, sostegno e supporto a livello psicologico ed emotivo. Per cui gli operatori, gli educatori e gli operatori sociosanitari, certo, se ne occupano ma inevitabilmente finisce che si perdano dei pezzi per strada. E la sessualità è uno di questi, dato che mancano le competenze.

CP: Quali sono quindi gli interventi più urgenti da realizzare nel prossimo futuro?

CB: Sicuramente le basi da cui partire nell’immediato sono la formazione e la psico-educazione. A livello generale bisognerebbe fare un lavoro culturale, organizzare più incontri coi genitori, con gli educatori per far sì che diventi un argomento condiviso di cui si possa parlare coscientemente. E non un tabù da aggirare a tutti i costi finché non genera problemi gravi dai quali non si può più sfuggire. Evitiamo di arrivare al problema, facciamo prevenzione.

Sito Tantemani

(immagine di primo piano Galina Chet; tutte le altre Linda Staf)

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