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#filamenti: grammatica minima delle relazioni tossiche

Articolo. Stanno emergendo sempre di più nuove consapevolezze su tematiche legate alla parità dei diritti, alle ingiustizie e alla violenza di genere. Queste consapevolezze si accompagnano anche all’acquisizione di un linguaggio nuovo, dove parole come «patriarcato» sono entrate a far parte del vocabolario comune. Ma come riconoscere le dinamiche che si riproducono all’interno dei sistemi tossici che abbiamo imparato a nominare?

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Si sono da poco concluse le manifestazioni per la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne», che quest’anno in Italia è stata particolarmente sentita e significativa, anche per la reazione all’uccisione di Giulia Cecchettin e per l’esemplare azione pubblica della sorella Elena, capace di iscrivere pubblicamente questa tragedia dentro il quadro altrettanto tragico della situazione dei femminicidi in Italia. In piazza a Roma sono scese più di cinquecentomila persone. Centinaia di migliaia hanno partecipato invece a cortei organizzati nelle città di tutta Italia. Questa movimentazione di piazza è il frutto di una lenta ma costante crescita di consapevolezza delle persone su temi che fino a pochi anni fa non erano considerati dai più.

Anche in Italia, il mondo della cultura ha definitivamente sdoganato al grande pubblico parole come «patriarcato», «femminismo», «femminicidio», rendendo accessibili tutta una serie di discorsi capaci di scardinare le assunzioni culturali comuni che normalizzano la violenza e la disuguaglianza tra i generi. La linguista Vera Gheno spiega come nominare ciò che non vediamo ce lo rende visibile, rende raccontabile ciò che prima non lo era.

Il lavoro di divulgazione di Michela Murgia e i suoi libri (20mila e 884 copie vendute), ha fatto un’enorme opera di alfabetizzazione del grande pubblico sui temi di genere. Il film di Paola Cortellesi «C’è ancora domani» ha raggiunto un incasso totale dall’uscita di ben 25 milioni di euro, rendendo pubblica e condivisa la riflessione sulle dinamiche della violenza domestica. «Barbie», seppur nella controversia di essere un blockbuster, ha divulgato su scala globale la critica ai ruoli di genere, decostruendo con ironia la sua struttura iniqua.

Questa consapevolezza accresciuta non ferma naturalmente i femminicidi, che restano una media di uno ogni tre giorni. L’Osservatorio Femminicidi di Non Una Di Meno, che ogni 8 del mese aggiorna i dati, riporta che dopo Giulia Cecchettin, sono state uccise a Fano Rita Taramelli e a Caserta Rosa Lombardi Vella. Questi dati portano numero dei femminicidi dall’inizio del 2023 a 110. Si tratta però di una consapevolezza che contribuisce a rompere il muro di omertà che circonda le persone che subiscono violenza, offre strumenti per inquadrare le situazioni di ingiustizia e mostra come una prospettiva differente e più giusta per la vita delle donne sia possibile.

Molto si può fare in termini di prevenzione: si è parlato di educazione all’affettività come strumento per sviluppare l’intelligenza emotiva a partire dalla consapevolezza delle proprie emozioni per favorire le relazioni interpersonali. Si è parlato dell’importanza di costruire prospettive educative differenti nelle scuole che prendano in considerazione questioni sociali e di genere, rendendo gli istituti scolastici luoghi dove tutte e tutti si possano sentire riconosciuti. Si è parlato dell’importanza fondamentale dei centri antiviolenza sui territori (CAV) e dei centri per autori di maltrattamento (CAM), che si occupano dal 2009 della presa in carico di uomini autori di comportamenti violenti nelle relazioni affettive. Trovate tutte le sedi in Italia dei CAM sul sito di Maschile plurale, associazione nazionale che occupa di promuovere una cultura che superi il patriarcato e una società libera dal maschilismo e dal sessismo.

Ho l’idea che stia, seppur lentamente, davvero emergendo un generale ripensamento delle relazioni alla luce delle nuove consapevolezze condivise sul tema della violenza di genere anche nel nostro paese. Nel suo ultimo libro «Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa» la filosofa e scrittrice Michela Marzano affronta, attraverso la storia di Anna, sopravvissuta a una storia di abuso, il tema della violenza e del consenso. Anna, insegnante a Parigi, si trova a discutere l’eredità del #MeToo con i suoi studenti mettendo a confronto le loro opinioni sul tema. Dalla prospettiva di sopravvissuta all’abuso in giovanissima età, Anna si interroga – attraverso questo dibattito con la classe – sulla sua esperienza, per capire il grado della sua connivenza con gli abusi subiti. In quest’analisi, emerge come sia necessario perdonarsi e fare chiarezza sui posizionamenti e sulle attribuzioni di responsabilità dell’abuso. Ma come dipanare la ragnatela intricata delle responsabilità nel vissuto in un’esperienza traumatica di questo tipo?

I pattern delle dinamiche relazionali

Penso che, dopo aver fatto nostro il vocabolario di cui abbiamo parlato sopra, sia importante acquisire anche una minima grammatica di funzionamento delle cosiddette (altra parola comune) relazioni tossiche. Una grammatica è un complesso di regole, norme e principi attraverso cui una lingua si struttura. Quindi, in relazione ai contesti di abuso e violenza psicologica e fisica, la grammatica delle relazioni tossiche potrebbe consistere nel riconoscimento di un insieme di pattern (modalità ripetute) di dinamiche relazionali che si riproducono ogni volta che una persona dalle tendenze antagoniste, narcisiste, tossiche entra in relazione con gli altri.

Partiamo dalla definizione di relazione tossica. Nel 1995, la psicologa americana Lillian Glass definì una relazione tossica come una relazione in cui le persone non si sostengono a vicenda, dove c’è conflitto, competizione, mancanza di rispetto e il tentativo costante di minare l’altro. Nella definizione di Glass, la tossicità sembra costruirsi come una co-responsabilità dei suoi partecipanti. Questa è anche un po’ l’interpretazione mainstream delle persone quando riconoscono in una relazione segni di tossicità. Si è soliti dire comunemente che la colpa è un po’ di tutte le persone coinvolte. Una più contemporanea visione di questi tipo di relazioni vede invece la relazione tossica come appartenente all’insieme delle relazioni abusanti, dove è molto più comune che sia uno dei due soggetti ad assumere comportamenti dannosi verso l’altro, il quale reagisce aggiustando i propri comportamenti per continuare la relazione.

Come spiega l’ex accademica, divulgatrice, psicologa californiana Ramani Durvasula nel suo libro «Don’t You Know Who I Am?”: How to Stay Sane in an Era of Narcissism, Entitlement, and Incivility», l’aspetto più subdolo di questo tipo di relazioni è che apparentemente sembrano relazioni normali. Spesso, infatti, l’ambiente circostante, la famiglia, i colleghi di lavoro, i media e anche i contesti curativi considerano i problemi di queste relazioni “i normali problemi” che ci sono in tutte le relazioni. Eppure, secondo la dottoressa Durvasula, ci sono delle visibili e argomentabili differenze tra una relazione sana e una relazione tossica.

In una relazione sana, quando le cose funzionano e non ci sono particolari problemi, emergenze e fatiche da gestire, la quotidianità si svolge in modo abbastanza liscio. C’è un senso condiviso di empatia, gentilezza, rispetto. Non c’è manipolazione, rabbia, attivazione della vergogna (ripensiamo al libro di Marzano). Una persona non passa da stati di idealizzazione o di annullamento di sé e può essere semplicemente sé stessa, senza dubitare della propria realtà, senza sentirsi minacciata o senza chiedersi se è “abbastanza”. In una relazione sana, anche se le cose non vanno come si vorrebbe, le persone possono decidere di andare oltre, mettendo fine alla relazione con tristezza, ma non con uno stato cronico di confusione mentale e affettiva.

Nelle relazioni tossiche invece, anche nei cosiddetti “giorni buoni” (giorni in cui non ci sono crisi particolari), la realtà e il senso di sé sono invece costantemente messi alla prova. La persona che subisce abbassamento è cronicamente confusa, si abitua alle reazioni rabbiose dell’altro e si convince ben presto che deve contenere e in qualche modo eliminare molte parti di sé per far funzionare la relazione. Nei “brutti giorni”, i giorni in cui la persona abusante è particolarmente violenta, chi subisce violenza vive poi in uno stato di panico. Vorrebbe difendersi, mettere confini, ma il più delle volte ha una reazione di blocco e sa che è meglio subire per non provocare ancora più violenza. Parliamo naturalmente non solo di violenza fisica, ma di violenza psicologica. In questo tipo di relazione una persona normale può diventare ansiosa, triste, apatica. Sente che la sua realtà e la sua identità le sono state rubate e soprattutto si convince giorno dopo giorno di essere lei il problema.

Per quanto così descritte questo tipo di dinamiche sembrino chiare, quando ci si trova in mezzo tutto è molto sfumato, confuso e difficile da leggere. Le persone possono rimanere intrappolate in queste relazioni per anni. Al netto delle condizioni economico-materiali che favoriscono la diseguaglianza e la dipendenza, la difficoltà a divincolarsi da certe situazioni relazionali è favorita da un lato dalla normalizzazione sociale, che lavora per de-stigmatizzare tutta la varietà dei comportamenti violenti, dai più banali ai più radicali, dall’altro dal fatto la persona tossica è esperta nella riconquista dell’altra/o, quando questi si vuole sfilare.

Abbiamo già parlato della dinamica del love-bombing , nella quale la persona tossica inizia una sorta di vero e proprio bombardamento affettivo per instaurare un rapporto esclusivo di fiducia e affidamento in cui le difese di chi è stato ingaggiato nella relazione si abbassano. Una volta che le difese sono abbassate e il rapporto di fiducia è in atto, comincia un processo di svalutazione e di utilizzo dell’altra/o per raggiungere i propri obiettivi e per regolare il proprio stato di rabbia interno. Se tuttavia la persona agganciata decide di sfilarsi dalla relazione, allora molto spesso avviene l’hoovering (letteralmente “aspirapolvere”), ovvero il tentativo di riconquista dell’altra/o attraverso un nuovo love-bombing, meno potente del primo, ma sufficiente a ingaggiare di nuovo la persona che si è sfilata dentro la relazione. E qui tutto ricomincia daccapo.

La grammatica delle relazioni tossiche non è di per sé una grammatica complessa, eppure è difficile da leggere sia dall’interno della relazione che dall’esterno. Dall’interno perché il grado di confusione e attivazione della vergogna impedisce a chi è coinvolto in questo tipo di relazioni di guardare alla situazione con lucidità (senza considerare la difficoltà oggettiva di staccarsi dalla relazione), dall’esterno perché la normalizzazione della violenza, così insita nella nostra cultura patriarcale, porta a sminuirle e spessissimo a sostenere chi abusa.

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