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#psicogeografie: come si esce da un tunnel (per poi guardarsi alle spalle)

Articolo. A volte ci sembra di essere in un tunnel senza via d’uscita. Ci sentiamo circondati da un’oscurità tangibile e eterna. Ma può essere che sia il buio stesso a impedirci di vedere l’uscita, che può essere più vicina di quanto crediamo

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Entrata (foto Claudio Agosti)

Lungo la Via dei Vasi, un sentiero che collega via Ramera a via Castagneta, c’è l’ingresso a uno stretto tunnel. Si tratta di un antico acquedotto che un tempo portava l’acqua a diverse fontane fra i Colli e Città Alta (qui trovate maggiori informazioni). Nonostante il fascino della galleria, non mi ci sono avventurato, non essendo attrezzato e non conoscendone la pericolosità. Quell’ingresso, ad ogni modo, mi ha riportato all’ingresso di un altro tunnel.

Ero, con due amici, lungo la Via Francigena in Toscana. La Via passa vicino a un obelisco eretto a commemorare l’opera di bonifica di una palude vicino a Siena. Ciò che resta di questa impresa è un lungo tunnel, detto «del Granduca», circa 2 km scavati sotto le colline. L’ingresso è poco distante dal monumento e, quando ci siamo affacciati, abbiamo notato un segnavia bianco e rosso. Ci avrebbe portato un po’ fuori strada, ma abbiamo deciso di percorrerlo.

«Ah, tutto è simbolo e analogia!», scrive Fernando Pessoa in «Faust» (e Carl Gustav Jung concorderebbe). Percorreremo questo tunnel, quindi, con questa visione analogica, un parallelo fra un tratto di cammino relativamente breve e i percorsi della vita di ognuno.

Decidiamo di entrare senza usare torce di alcun tipo. La bocca del tunnel è alle nostre spalle e la luce che entra illumina sempre più debolmente la strada di fronte a noi, allungando le nostre ombre ad ogni passo. Poi arriva il buio. Arriva di colpo, non gradualmente: d’un tratto anche l’ultima cruna di luce dietro di noi è sparita e ci troviamo immersi in un buio totale, identico in ogni direzione. Vediamo tutto nero.

E quante volte può capitare, nella vita, «di vedere tutto nero»? Qualche volta siamo consapevoli della scelta che ci ha portato dove siamo, a volte no. Comunque sia, ci capita di trovarci più o meno improvvisamente in un tunnel di cui non vediamo l’uscita, la proverbiale «luce in fondo». E non vediamo neppure la luce che c’era quando ci siamo entrati. Tutto nero. Ovunque. E può capitare che spazio e tempo si confondano, si fondano, e il buio sia non solo “ovunque”, ma anche “comunque”, che si estenda non solo nello spazio, ma diventi anche eterno. Quando siamo immersi dalle tenebre, vediamo solo quelle, e ci sembra debbano durare per sempre.
Per esempio, a volte la depressione è così. Di colpo ci si ritrova avvolti nelle tenebre, nella “selva oscura”, senza sapere come ci si è finiti. Avviene così anche per le dipendenze, che siano da sostanze, affettive o comportamentali, come il gioco d’azzardo: una situazione che inizialmente è sotto controllo subisce un’accelerazione e a breve ci sfugge di mano, e brancoliamo nel buio.

Proseguiamo il cammino, di volta in volta alternandoci alla “guida” del terzetto. Usiamo i bastoncini da trekking per mantenerci al centro del tunnel, che sembra non essere lineare. O forse è il nostro andare che, in mancanza di riferimenti visivi, si fa storto e ubriaco? Ma non è la sola alterazione percettiva: a me sembra di andare in salita, a un amico in discesa. Sembra di vedere il buio muoversi.

Il buio evoca il nulla, il vuoto, e la psiche fatica a stare nel vuoto, e spesso lo riempie. Nel mio lavoro li chiamo «fantasmi». Può capitare che nei momenti di solitudine facciano la loro comparsa relazioni del passato. O di riempire il silenzio di qualcuno con la voce della nostra Ombra. Di comportarci come se qualcuno ci stesse osservando, pronto a giudicarci impietosamente. In questo caso, a farci compagnia, può esserci sia il fantasma del nostro inquisitore interno, sia quello del giudizio (o della sentenza). A volte siamo bloccati da un ipotetico sguardo su di noi, una voce interna che ci dice «non sei capace... non serve a niente... non essere ridicolo... non puoi farcela»: Fantasmi di voci che abbiamo interiorizzato nostro malgrado. E anche il tempo sembra trascorrere diversamente, non sincronico con quello segnato dall’orologio. E spesso non sintonico col nostro desiderio o con le nostre aspettative di durata. Siamo immersi nel Kairòs, il tempo vissuto, diverso dal Cronos, il tempo misurabile della tecnica.

A un certo punto, iniziamo a sentire sotto i nostri piedi dell’acqua che poco dopo arriva alle nostre caviglie. Essendo in un tunnel creato per far defluire l’acqua, decidiamo di accendere le lampade, per non rischiare di non vedere pozze troppo grandi o altri possibili pericoli. Facciamo luce, insomma. Vediamo qualche piccolo pipistrello appeso alla volta. Uno stretto pozzo da una prospettiva inusuale: noi siamo in fondo.

Quando attraversiamo il buio, può capitare accada qualcosa che emerge dall’uniformità. Un’emergenza, appunto, che ci fa sentire il bisogno di introdurre un cambiamento. Qualcosa che ci fa aprire gli occhi e ci spinge a portare la luce della coscienza nel nostro buio. Può essere che questo incidente (che può essere anche un sogno o un’intuizione) ci porti a cercare l’aiuto di qualcun altro. A volte, insomma, nel buio può accadere qualcosa che ci porti a ricorrere a risorse interne o esterne, a una presa di coscienza di quello che ci sta succedendo. Arriva un momento in cui ci diciamo «è troppo» e mettiamo in campo risorse inaspettate, iniziamo a prenderci cura di noi, a volerci bene e a rimetterci al centro della nostra vita. Può significare l’inizio di una terapia, ma anche la ripresa di attività fisica, o anche una vacanza.

Poi, improvvisamente la luce. Quasi non ce ne siamo resi conto, ma a un certo punto, di fronte a noi, è comparsa un’apertura, l’uscita dal tunnel. Probabilmente era nascosta dietro una curva leggera, o forse, come era sparita di colpo quando siamo entrati, così è ricomparsa ora che stiamo per uscire, per qualche sorta di fenomeno ottico. Usciamo e ci guardiamo alle spalle, guardiamo il buio che abbiamo attraversato.

Quando non vediamo una via d’uscita dalle nostre tenebre, può essere che questa sia semplicemente dietro una curva che non riusciamo a vedere, a causa del buio in cui siamo immersi. Una volta fuori, è importante anche guardare alle nostre spalle, e raccogliere l’esperienza per non dimenticare da dove siamo usciti. Anche la Luce sembra eterna e ovunque, e corriamo il rischio di dimenticarci del passaggio che abbiamo compiuto, perdendone il senso e non cogliendone la grandezza, col rischio di sminuire la nostra forza e il potere delle nostre risorse. A volte capita che si perdano di vista cambiamenti positivi importanti: anche nei percorsi terapeutici, sembra di essere sempre uguali, sempre nella stessa situazione. Ma, guardandosi alle spalle e ripercorrendo il percorso fatto, ci si rende facilmente conto che magari pochi mesi prima non si riusciva a dormire, si era ancora aggrappati a una relazione che non funzionava, non si riusciva nemmeno a pensare di cercare un lavoro, mentre invece ora...

Come si esce, dunque, da un tunnel? Continuando a camminare: dobbiamo attraversarlo. Non siamo noi a decidere la lunghezza del tunnel, e quindi quanto durerà la nostra traversata. Possiamo in qualche modo modificare la velocità, ma non è facile correre senza vedere dove si mettono i piedi. E a volte la lentezza può permettere di imparare da quello che ci sta succedendo, per quanto doloroso sia. Di apprendere qualcosa di prezioso.

Certo, essere in buona compagnia aiuta a rendere più piacevole il percorso (e questo, fuor di metafora, può significare la necessità di ricorrere all’aiuto di un professionista). Dare un senso all’esperienza del buio significa trovare quel tesoro nascosto in fondo a un pozzo così profondo da non permettere alla luce di illuminarlo, e di riportare questo tesoro in superficie, farlo nostro. Significa integrare le nostre parti in Ombra. Nell’alchimia, considerata in psicologia un simbolo del percorso di individuazione psicologica, è la Nigredo, l’Opera al Nero, una fase di putrefazione e dissoluzione necessaria e che porta all’Albedo, la luce dell’Alba.

Si tratta di imitare il lavoro nascosto e segreto del seme, che marcisce a lungo nel buio per emergere, come fiore, alla Luce.

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