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#psicogeografie: il mammut nella stanza. Ritrovare il nostro bambino perduto

Articolo. Il bambino che siamo stati è ancora vivo in noi, con le sue paure ma anche con la sua vitalità e possibilità di crescita. Possiamo riscoprirlo e prendercene cura per ritrovare gioia e meraviglia. Come scrisse William Blake: «Vedere un mondo in un granello di sabbia / E il paradiso in un fiore selvatico / tenere l’infinito nel palmo della mano / e l’eternità in un’ora»

Lettura 3 min.

Da piccolo abitavo vicino al Parco Suardi. Era la meta di avventure con amici, corse sulle macchinine, partite a biglie. Ci sono tornato qualche anno fa, dopo non averlo frequentato per lungo tempo. Qualcosa era cambiato, e non mi riferisco agli ammodernamenti dei vari giochi (anche se, quando ho visto il “laghetto” recintato, mi sono chiesto: «Come faranno i bambini a imparare a cadere?», essendoci io cascato in tenera età). Il cambiamento che percepivo era più esistenziale: il parco era più piccolo.

Ovviamente nessuno ha ristretto il Parco Suardi in questi trent’anni, semplicemente sono cresciuto io.
Cose che ci apparivano enormi quando eravamo piccoli, crescendo si ridimensionano: questo vale per lo spazio, ma anche per il tempo. Da bambino un ventenne mi sembrava adulto, ora lo vedo molto giovane. E gli anni sembrano correre più velocemente.

Per qualcosa, tuttavia, questo meccanismo non funziona. Cose che ci sembravano grandi quando eravamo piccoli, da adulti ci sembrano enormi. Ripeto volutamente il termine generico «cose», perché sono cose così incommensurabili da sfuggire al nostro campo percettivo. Sono talmente grandi da non essere visibili. «Cose invisibili» di questo tipo rischiano di diventare il proverbiale «elefante nella stanza», così grande e ingombrante da risultare impercettibile. Spesso sono cose che ci spaventavano da piccoli e ora potrebbero essere così terrorizzanti che non le vogliamo neanche guardare, per questo sono invisibili. Non sto parlando delle fantasiose paure infantili di mostri o simili, ma del terrore traumatizzante che troppo spesso abita il quotidiano.

L’angoscia annichilente di perdere una persona, che può diventare addirittura impensabile, può essere legata alla minaccia inconscia, ma non meno reale, di perdere qualcuno da cui dipendeva la nostra stessa esistenza. Oppure l’impossibilità a uscire dalle proprie zone di confort può derivare dalla sensazione che ci mancasse il terreno sotto i piedi quando iniziavamo a muovere i primi passi, quando imparavamo a reggerci sulle nostre gambe, e magari non c’era nessuno ad aiutarci, o chi era presente ci guardava con più preoccupazione che gioia. Possono sembrare esempi banali, ma lo sono solo perché riusciamo a guardarli ora per quello che ci sembrano adesso che siamo «grandi».

Per la psiche bambina qualcosa che a un occhio adulto può sembrare trascurabile, leggero, può essere pesantissimo, come uno sguardo impercettibilmente carico di un’emozione può avere un’eco frastornate che si ripete per anni.

Da un punto di vista psichico, il bambino che eravamo è ancora vivo in noi, e può essere ancora rifugiato da qualche parte, terrorizzato e in attesa di un adulto che lo accolga e protegga. Ora quell’adulto possiamo essere noi, e guardare al nostro sé bambino con benevolenza e rassicurarlo. Siamo più grandi, ora, e quelle minacce che una volta erano realmente mortali, ora non lo sono più. Una volta una delle mie maestre terapeute ci disse che la cosa che più ci spaventa, ci è già successa, e siamo sopravvissuti!

Una grande parte del lavoro che si fa in psicoterapia è cercare di ristabilire un dialogo amorevole fra la nostra psiche bambina, che può essere spaventata, e la nostra psiche adulta, che può diventare un genitore punitivo e intransigente. Ma alcuni esempi del tentativo di ricreare questo rapporto sono presenti anche in letteratura, per esempio si vedano (e leggano) «Il Piccolo Principe» e il più recente «La Lucina» di Antonio Moresco.

Essere in contatto con la nostra parte bambina, è di fondamentale importanza. Non solo perché «proteggendola e rassicurandola» ci alleggeriamo di gran parte della sofferenza psichica che ci portiamo sulle spalle da sempre, ma anche perché è lì che risiede una grande energia potenziale e la nostra possibilità di crescita.

Qualche mese fa, leggevo del grande numero di minori che scompaiono quotidianamente in Italia, ma pensiamo a quanti bambini “scompaiono” dietro uno schermo (sia che siano loro a guardarlo, sia che lo siano i genitori, il rapporto è “schermato” comunque) e a come è facile far sparire tutte quelle parti di noi che giudichiamo (negativamente, e quindi con gli occhi di un genitore inquisitorio, anche se non siamo genitori) infantili o puerili. Sono convinto che termini e espressioni come «infantile», «puerile», «bambino», che vengono usati nei confronti di un adulto con un’accezione negativa, siano da volgersi al positivo.

Nell’immaginaria passeggiata di oggi, dal Parco Suardi mi muovo verso via Pignolo ripercorrendo luoghi della mia infanzia, salgo verso Città Alta e arrivo in Cittadella, al Museo Civico di Scienze Naturali «Enrico Caffi». Un altro posto in cui non sono entrato per anni. Quando mi ci son ritrovato di fronte, non volevo perdere la meraviglia che provavo da bambino di fronte al mammut, una presenza mitologica per generazioni di bergamaschi (al pari forse di quello di Rebibbia narrato da Zerocalcare).

Ho provato dunque a (re)imparare dai bambini, nello specifico dal figlio di un amico, che spalancava gli occhi estasiato dal semplice (per noi adulti) accendersi di una lampadina. E sono entrato sgranando gli occhi, cercando di guardare tutto come se fosse la prima volta, provando a ricreare quell’emozione infantile. È possibile: il mammut è rimasto grandioso.

A volte la magia è non far sparire il bambino in noi, imparare dai bambini lo stupore per mantenere viva la capacità di meravigliarsi, quella magia che William Blake ben descrive negli «Auspici di Innocenza», per cui diventa possibile «Vedere un mondo in un granello di sabbia / E il paradiso in un fiore selvatico / tenere l’infinito nel palmo della mano / e l’eternità in un’ora».

Possiamo fare amicizia con la nostra parte bambina, e possiamo anche tornare bambini. Succede spesso in terapia, nella mia esperienza grazie al lavoro corporeo e al «Gioco della Sabbia», pratiche non verbali che vanno oltre l’uso della parola (non a caso, etimologicamente, infante significa che non parla). Ma succede fortunatamente altrettanto spesso quando ridiamo di gusto, quando giochiamo spensieratamente e ritroviamo quella gioia che è sempre potenzialmente possibile. La buona notizia, come ha scritto Tom Robbins è che «non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice».

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