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#psicogeografie: quella coda della lucertola che dobbiamo perdere

Articolo. A volte per sopravvivere siamo costretti a separarci da parti di noi. Questo processo può essere doloroso, scelto da noi, consapevolmente o meno, o imposto da forze esterne. Resta comunque una tappa necessaria delle nostre vite e del processo di individuazione

Lettura 4 min.
Reptiles Colour, M.C. Escher, 1943

Qualche notte fa ho sognato di vedere, mentre camminavo, una lucertola che aveva perso la coda. Avrei voluto fermarmi a raccoglierla, forse, o semplicemente osservarla qualche istante di più, ma nel sogno dovevo affrettarmi, probabilmente per raggiungere qualcuno più avanti. Ciò non vuol dire che io non possa, nella vita diurna, cogliere quel segnale onirico e partire propria dall’immagine di quella lucertola senza coda.

Le lucertole, si sa, sono note per la loro capacità di perdere la coda per fuggire ai predatori. Psichicamente ci può succedere qualcosa di simile: per sopravvivere, a volte siamo costretti a sacrificare una parte di noi.
Questo avviene sicuramente in caso di traumi, ma anche in sviluppi più frequenti della nostra vita. Nelle osservazioni di Wilhelm Reich e Alexander Lowen, per esempio, è così che si forma il nostro carattere, dove per carattere si intende la nostra identità psico-corporea. Tutte quelle emozioni che abbiamo dovuto reprimere per non perdere l’amore di chi si prendeva cura di noi si sono congelate e tradotte in contrazioni anche muscolari, che formano quella che viene definita “corazza” caratteriale. Una corazza pesante, che ci limita i movimenti e la vitalità. Ma che ci ha salvato la vita e per questo fatichiamo a lasciar andare.

Quando siamo piccoli, perdere l’amore significa letteralmente perdere la vita, quindi preferiamo (inconsapevolmente, ovviamente, non si tratta di scelte o calcoli consapevoli) sacrificare una parte della nostra vitalità (la nostra coda metaforica) per non sentire quel dolore. Emozioni come la rabbia o la tristezza spesso vengono fortemente disincentivate, ad esempio con frasi come «non fare i capricci», «non fare la femminuccia», «se piangi diventi brutta» e ai loro corrispettivi educativi non verbali. Uno sguardo può raggelare più di una strigliata, figuriamoci le punizioni corporali!

Quindi, per non sentire il dolore che causa quell’emozione, impariamo a reprimerla nella maniera più semplice che abbiamo, prima ancora di imparare a parlare: tratteniamo il respiro e contraiamo i muscoli. Queste contrazioni possono diventare croniche e formare la nostra struttura caratteriale, in qualche modo influenzando la nostra postura e come ci muoviamo, nel mondo e nella vita. Ci muoviamo meno e respiriamo meno per non sentire dolore. Se non respiriamo, moriamo. E se respiriamo meno siamo meno vivi. Parte del lavoro psicoterapeutico, almeno in analisi bioenergetica, è dedicato a disimparare quei blocchi del respiro, blocchi sia emotivi che muscolari, che abbiamo dovuto apprendere nostro malgrado.

Non so se le lucertole provino dolore perdendo la coda. Certamente, per la nostra psiche, il fantasma di un dolore emotivo è talmente forte da farci congelare pezzi di noi. La paura di un “dolore fantasma” genera una sorta di “arto fantasma”: parti di noi diventano insensibili.

Può capitare di lasciare andare una parte di noi perché una nostra dote viene privilegiata a dispetto di altre: è il «dramma del bambino dotato» di cui scrive nel libro omonimo Alice Miller, riferendosi in particolare all’abilità e alla propensione all’ascolto. Viene fatta una sorta di patto implicito e inconscio fra il bambino e un adulto (solitamente una figura genitoriale): in cambio del tuo ascolto e della tua comprensione, avrai il mio amore. L’amore non è incondizionato, ma la condizione diventa l’attenersi a questo patto. Che può avvenire anche per altre qualità, come i successi intellettuali, andando poi a svalutare il corpo in favore della mente (o viceversa).

L’amore non va dato per scontato, ma dovrebbe essere gratuito, almeno dai genitori verso i figli.
Non voglio qui condannare i genitori, sia chiaro. È il mestiere più difficile e sono convinto che, salvo situazioni estreme e patologiche, ogni genitore faccia il meglio che può, sommando ciò che ha ricevuto come “eredità emozionale” dai propri genitori alle qualità e competenze emotive acquisite nel proprio percorso di vita e crescita. Ma data la povertà emotiva diffusa, purtroppo dobbiamo considerarne le inevitabili conseguenze.

A volte, poi, non siamo noi a sacrificare, a lasciar andare la coda, ma questa ci viene strappata, come avviene in caso di violenze e abusi. In questi casi viene sacrificata la propria bellezza (non in senso estetico), la propria gioia, la propria felicità, come se si dovesse restare sempre nascosti, passare sotto i radar perché non sappiamo quale attenzione potrebbe essere pericolosa. Violenze, abusi e traumi congelano e mortificano una parte della psiche, con conseguenze a lungo termine che vanno da una sorta di ottundimento, alla rinuncia, inconsapevole e involontaria, a una parte più o meno grande della propria vitalità, per esempio a una sessualità libera. Mi vengono in mente i due protagonisti di «Mysterious Skin», un film di Gregg Araki: di fronte allo stesso trauma, uno dei due reagisce con una promiscuità estrema, l’altro con un ritiro quasi totale in un mondo di alieni. Anche i traumi si possono sciogliere, anche se spesso sono protetti e nascosti in angoli profondi della psiche. Sono come buchi neri, invisibili ma con una fortissima forza gravitazionale, attorno a cui gravita gran parte della vita psichica.

Può invece darsi il caso che siamo noi, più spesso da adulti, a non voler lasciar andare la nostra coda, anche se questa ci mantiene legati a una trappola, o quantomeno a una zavorra. Succede spesso con le relazioni, code che ci restano attaccate e da cui fatichiamo a separarci, per quanto nocivo possa essere. In ambito relazionale, mi capita di vederlo spesso in emozioni come il rancore, che è una sorta di rabbia stagnante, incistata e “circolare”, nel senso che genera circoli viziosi, e serve, in realtà, a mantenere la relazione anche quando questa è terminata, nei fatti, da tempo. Mentre la rabbia attiva può generare una distanza, senza diventare violenta e agita, ovviamente, ma nemmeno essendo repressa, il rancore non allontana, non separa, ma mantiene a portata di mano (o comunque in vista) l’altro, «che non si sa mai». In questi casi, spesso è il dolore del “perdere la coda” tutta in un colpo a spaventare, e che ci porta a scegliere uno stillicidio invece che un “colpo netto”. Il dolore, come la rabbia, va accettato e integrato, a volte è una condizione necessaria alla nostra crescita.

Allo stesso modo fatichiamo a lasciar andare parti di noi, a cambiare, e stiamo nell’inerzia. Questo perché viviamo nella paura che cambiando possiamo diventare qualcosa di diverso, altro da noi, e tradire qualcosa di nostro. Abbiamo l’illusione che l’identità sia qualcosa di fisso e immutabile, che se cambia viene sostituita. Mentre più realisticamente, da un punto di vista psichico, è più qualcosa che si modifica crescendo per accumulo e aggiunta di esperienze e qualità. Il processo di individuazione, il diventare noi stessi, non è mai lineare.

Nel mio sogno, la lucertola se ne stava beata al sole. Con la primavera, con l’aumento delle ore di sole, le lucertole escono dal letargo e cercano il sole, ne amano il calore. Allo stesso modo, anche le parti di noi congelate cercano naturalmente il calore, emergono e si fanno vedere quando si sentono al sicuro nel caldo di una relazione positiva, che cura. La rigidità della nostra corazza, non va spezzata, ma sciolta. Come per le lucertole, anche le nostre code possono in qualche modo rinascere e rigenerarsi. E se invece erano solo zavorre da lasciar andare, un altro rettile a cui fare riferimento può essere il serpente, che lascia andare la pelle quando è tempo di averne una nuova. Cambiare pelle non vuol dire cambiare identità. Come un fiume, che dalla fonte alla foce cambia infinite volte, restando sé stesso.

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