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#workinprogress: che fine fanno le startup innovative che applaudiamo al nascere?

Articolo. Nel 2022 le startup innovative italiane hanno raggiunto quota 14.621. Il 28% di queste ha sede in Lombardia. Un valore in crescita che ha suscitato l’entusiasmo di molti commentatori e di tutti i soggetti che si occupano di erogare servizi di vario genere a chi decide di avviare una giovane impresa innovativa

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Anche il mondo politico ha accolto con favore e rilanciato i dati che confermavano il trend positivo, ribandendo la centralità strategica di queste imprese per il futuro del Paese. «La startup innovativa è un’impresa giovane, ad alto contenuto tecnologico con forti potenzialità di crescita e rappresenta per questo uno dei punti chiave della politica industriale italiana» scrivono sul sito del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

Vi è tuttavia un lato oscuro della faccenda che raramente viene raccontato. Secondo le rilevazioni di startupgenome — la più famosa agenzia di internazionale di ricerca e consulenza sul mondo delle startupil tasso di mortalità delle startup innovative italiane a 18 mesi dalla nascita si aggira attorno al 92%. Solo 8 su 100 sopravvivono. Un dato impressionante che tuttavia non pare aver incrinato l’entusiasmo euforico che accompagna il dibattito pubblico sul tema. La stampa di settore, in particolare quella legata al mondo delle imprese, continua ad attribuire l’alta percentuale di fallimento all’incapacità dei cosiddetti startupper di leggere il mercato, di individuare i prodotti giusti e di avvalersi delle adeguate risorse, capacità, strumenti per competere.

Uno studio di CBInsight ha individuato le seguenti ragioni all’origine della scarsa longevità delle startup italiane: assenza di un mercato (42%), fondi esauriti (29%), team non adatto (23%), concorrenza (19%), pricing errato e costi elevati (18%), prodotto non soddisfacente (17%), business model sbagliato (17%), marketing non all’altezza (14%). Insomma, le cause del disastro sarebbero da rintracciare nei fattori soggettivi e non in quelli oggettivi, strutturali. Solo i migliori ce la fanno. Il problema è che non abbiamo abbastanza “migliori”.

A me pare una lettura semplicistica, poco utile a comprendere il fenomeno e a identificarne cause ed eventuali soluzioni. Perché un tasso di mortalità del 92% è troppo elevato per essere liquidato come effetto di un deficit di competitività di prodotti e servizi. O di una generale inadeguatezza di queste imprese. Al contrario, è un dato che riflette una criticità sistemica, una debolezza delle politiche industriali attuali. A farne le spese, oltre al mondo delle PMI che fatica a consolidare il proprio segmento innovativo, sono tanti giovani imprenditori che, in poco tempo, passano dal grande sogno del successo all’incubo del fallimento e dell’indebitamento. Che spesso comporta la perdita del capitale famigliare investito, ancora oggi, ahimè, una delle principali fonti di finanziamento iniziale per questo genere di imprese.

A tale situazione contribuisce non poco quella platea di operatori intermedi tra capitale e impresa che, speculando sui sogni, fanno vera e propria disinformazione. «Una selva di presunti incubatori, acceleratori, advisor – scriveva Gianmarco Carnovale qualche mese fa – c he continuano a dilagare nel Paese promuovendo una comunicazione in cui vendono il sogno: “diventa imprenditore”, “realizza il tuo progetto”, “incontra gli investitori”, “ti portiamo da idea a impresa in sette settimane” e dichiarazioni simili, a fronte delle quali poi il founder sprovveduto si ritrova sempre a sottoscrivere vincolanti contratti di consulenza in cui le spese sono una certezza ed il sogno resta tale».

Ma il problema principale risiede nella cultura diffusa attorno all’autoimprenditorialità, che rischia di offrire un’immagine distorta e ingannevole delle condizioni e dei vincoli che determinano le possibilità reali di successo di un’impresa. L’imprenditorialità è sempre presentata non come una posizione particolare all’interno di rapporti di produzione, bensì come un atteggiamento etico e morale, una disposizione del soggetto al rischio e all’incertezza. Le virtù della fiducia in sé stessi e nel «farsi da sé» sono divenute una credenza nazionale, e i risultati materiali sono celebrati come vittorie morali.

Rimuovendo la pluralità di fattori — in gran parte esogeni — da cui dipendono le sorti di una vicenda imprenditoriale, politica e mass media finiscono con lo scaricare sul singolo le ragioni del fallimento. Tra il 2020 e i primi mesi del 2023, ho seguito personalmente tre ventottenni ex startupper nella ricerca del lavoro. Li ho incontrati perché, dopo il fallimento delle loro rispettive startup informatiche, stavano svolgendo il Servizio Civile Universale sperando così di trovare una nuova traiettoria di vita e professionale. Avevano attraversato un periodo di depressione e tutti e tre ripetevano di non riuscire a sentirsi mai veramente sereni perché tormentati dal pensiero dei debiti che li avrebbero accompagnati per i successivi dieci anni.

Due di loro, grazie al Servizio Civile, hanno trovato lavoro nei servizi alla persona e ripreso gli studi universitari per conseguire il titolo necessario per essere stabilizzati. Il terzo invece ci è ricascato. Sedotto da reel pubblicitari ingannevoli, ha contratto un ulteriore debito tramite un prestanome per rilanciarsi nel mondo dei bitcoin e degli NFT. Ovviamente ha perso tutto. Ora è in cura psichiatrica, a seguito di un episodio violento. Presenta, tra gli altri, sintomi solitamente associati ad alcune forme di ludopatia.

Forse sarebbe utile raccontare anche queste storie quando si affronta il tema dell’autoimprenditorialità e delle startup innovative. Perché dietro quel 92% si nascondono le vite di tante persone che, anche a causa della retorica di cui sopra, vivono il fallimento aziendale come fallimento esistenziale, nel silenzio e nella vergogna. La maggior parte di loro sono under 35. Un po’ presto per vivere sconfitti.

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