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Filamenti #9: l’università da adulti? Vi racconto la mia esperienza

Articolo. Tornare all’università o cominciare gli studi da adulti è una pratica a cui sempre più persone si dedicano. L’università arricchisce la nostra formazione, offre un percorso di conoscenza del mondo e di sé e apre le strade a nuove possibilità di riqualificazione lavorativa. Ecco tutte le ragioni per cui anche (e soprattutto) da adulti ha senso – se si ha la possibilità – intraprendere un percorso universitario

Lettura 7 min.
(Illustrazione di Alphavector)

A quarant’anni, nel mezzo del cammin di mia vita, anche io mi sono trovata in una selva oscura che diritta via era smarrita. Ero appena uscita dalla compagnia teatrale indipendente milanese in cui avevo creduto e lavorato per dodici anni, prima come attrice e poi come autrice. Era finito un periodo importante della mia vita e tra l’altro non era finito tanto bene. Le vicende umane legate a questo cambiamento erano state pesanti e poco incoraggianti per il futuro.

Mi trovavo sola, nella posizione di decidere se continuare a fare quello che avevo sempre fatto nella mia vita professionale con altre realtà lavorative o provare anche a fare altro. Altro per me potevano essere molte cose. Mi interessavano in generale le discipline umanistiche legate alle arti, ma anche la scrittura, la filosofia, la psicologia. Ricordo che quando avevo palesato la possibilità di iscrivermi alla facoltà di psicologia dell’Università di Bergamo, una mia collega teatrante mi aveva detto in camerino con aria di sprezzo: «Psicologa, tu?».

A volte succede che nella vita alcune frasi spiacevoli facciano da detonatore per l’esplosione di energie ancora inespresse. E così nel 2012, all’età di trentanove anni, mi iscrivevo alla facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Bergamo. L’idea era poi quella di proseguire e prendere l’indirizzo di psicologia clinica. Avevo già una laurea in DAMS, ma questo non rendeva l’esperienza meno difficile dato che gli argomenti di studio erano nuovi e io mi sentivo un po’ una mosca bianca. Come sarebbe stato andare a lezione con persone così giovani e distanti da me?

Quello che è accaduto è che mi sono presto resa conto che non ero la sola. Come me c’erano molte altre persone della mia età, e anche più grandi, che avevano deciso di darsi un’altra possibilità. All’inizio sembrava a tutti e tutte noi un’impresa impossibile, tra lavoro, famiglia, permessi, figli. Eppure una pagina alla volta, un libro alla volta, un esame alla volta siamo riuscite a laurearci tutte.

Prendere una seconda laurea mi ha cambiato la vita in molti modi. Per dieci anni non ho smesso di scrivere per il teatro e lavorare come regista, ma il mio lavoro si è nutrito di quello che ho assorbito durante gli studi in psicologia e per questo, penso, sono stata più in grado di esprimere quello che creativamente mi stava a cuore. Questi approfondimenti mi sono serviti anche a rileggere le dinamiche umane dolorose di gruppo che avevo vissuto dal punto di vista lavorativo, a rielaborarle e capirne le ragioni. Infine, dopo essere arrivata in Nord Europa per ragioni personali, avere una laurea in psicologia clinica mi ha permesso di accedere a un dottorato in Scienze Sociali, aprendomi nuove possibilità in accademia. Questi sono stati alcuni degli effetti più manifesti dell’aver intrapreso un percorso universitario a quarant’anni. Ma penso che i benefici di questa scelta vadano anche oltre.

Molto spesso, quando consiglio alle mie amiche e amici di fare l’università, o anche una scuola superiore se non hanno avuto la possibilità di farla da giovani, la risposta è: «Ma tanto non mi serve a niente». Come dice Michaela Muthig, “il piccolo sabotatore” che è dentro ognuno di noi agisce bloccando i nostri possibili buoni propositi, magari ancor prima di averli davvero presi in considerazione.

I percorsi di formazione non sono mediamente percepiti come opportunità di crescita e c’è una comprensibile diffusa sfiducia nel rapporto tra formazione e impatto nel mondo del lavoro. Tuttavia, dal rapporto dell’Agenzia Nazionale Politiche Attive del lavoro del 2018-2020 si legge che bassi livelli di competenza si traducono in un ampliamento delle diseguaglianze, ulteriormente enfatizzato dagli effetti della crisi pandemica.

In sostanza, meno preparazione si ha e meno titoli si hanno per dimostrare i propri percorsi, meno possibilità lavorative s’incontrano. Non incardinandoci in percorsi di studio tradizionali, abbiamo la sensazione di essere più liberi e libere. In realtà le nostre opportunità si restringono, rendendoci ancora più dipendenti dal contesto spesso difficile in cui ci muoviamo. Secondo Alma Laurea, che dal 1999 realizza con cadenza annuale l’Indagine sul Profilo dei Laureati, i dati sugli esiti a distanza confermano che investire in istruzione conviene ancora. I laureati e le laureate, infatti, godono di vantaggi occupazionali importanti rispetto ai diplomati durante l’arco della vita lavorativa: nel 2021, il tasso di occupazione della fascia d’età 20 -64 è il 79,2% tra i laureati, rispetto al 65,2% di chi è in possesso di un diploma.

Con questo discorso, non voglio sminuire il valore di percorsi di formazione indipendenti e fuori dall’ambito universitario, in cui per altro ho speso la maggior parte del mio tempo di studio e lavoro. Voglio dire che i percorsi tradizionali offrono ancora uno dei pochissimi modi per favorire la mobilità sociale e lottare contro la precarietà. Inoltre, possono aiutarci a fare meglio e diversamente anche quello che stiamo già facendo. Questo discorso diventa ancor più vero quando superiamo la fase della giovinezza, andiamo verso la maturità e le nostre energie diminuiscono.

Per approfondire questo tema, ho intervistato Adolfo Scotto di Luzio, professore ordinario di Storia della pedagogia presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli studi di Bergamo. Adolfo Scotto di Luzio si occupa di temi relativi alla storia della cultura in Italia tra Otto e Novecento, ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. In particolare, in relazione al tema che stiamo trattando, vi segnalo « La scuola degli italiani », volume che traccia la storia dell’istituzione scolastica in Italia dalle sue origini risorgimentali fino alla riforma Moratti, nel succedersi dei regimi e delle riforme.

CP: Perché iscriversi all’università oggi?

ASD: È una domanda alla quale si può rispondere in molti modi. Io direi che l’università si fa per tante ragioni. Si fa perché ormai, nel mercato del lavoro, ci sono tutta una serie di dimensioni professionali alle quali non è possibile accedere senza avere un titolo di istruzione superiore. Quindi, se si vuole stare in una posizione che sia soddisfacente dal punto di vista della realizzazione di sé, in qualche modo l’università è un passaggio necessario. D’altra parte però, l’università è anche un elemento di qualificazione personale, che completa in alcuni casi un percorso di studi forse cominciato molto prima. Quello che si aggiunge oggi a differenza del passato è che i tempi della vita e quelli della formazione non sono più così rigidamente scanditi. Una volta, c’era un tempo dedicato alla formazione che per alcuni finiva molto presto, mentre per altri si prolungava fino alle soglie dell’università, e poi un tempo di vita concentrato sul lavoro, la famiglia, le responsabilità adulte. Oggi viviamo una condizione nella quale questa scansione così rigida, che certamente permane, non è più l’unica dimensione valida. Oggi si apre tutta un’altra serie di possibilità.

CP: Quindi anche la tipologia di studenti e studentesse è cambiata?

ASD: Una quota sempre più consistente dei nostri studenti e studentesse è fatta di persone che tornano all’università dopo un po’ di tempo. Spesso sono persone già laureate, che decidono di operare una riconversione professionale. Oppure sono persone entrate nel mondo del lavoro precocemente, che una volta risolte questioni personali, come la sistemazione dei figli, si concedono di tornare a studiare. A questo proposito segnalo che sono soprattutto le donne il soggetto che oggi partecipa di più alla formazione superiore. Sono loro che maggiormente decidono di reinventarsi. E uno dei modi fondamentali di questa reinvenzione è sicuramente quella di iscriversi all’università. Ti devo dire anche – e questa è una nota molto personale – che io penso che siano anche gli studenti e le studentesse migliori. Sono persone mature, motivate e hanno un approccio più serio agli studi universitari. Mentre spesso i giovani sono un po’ legati a una visione utilitaristica del loro percorso universitario e sono compressi in tempi molto ristretti, le persone più grandi vogliono assaporare a pieno questa possibilità che si sono concesse e ci si dedicano allo studio in modo diverso.

CP: Rispetto al tema della formazione, questo ritorno all’università in età adulta che cosa ci dice?

ASD: Questo ritorno all’università e questo nuovo modo di viverla permette – a mio avviso – di correggere una visione un po’ troppo unilaterale dei processi formativi. Sembra oggi che a scuola si debba andare esclusivamente per avere un più efficace accesso al mercato del lavoro. In realtà questi percorsi, traiettorie personali e nuovi progetti di vita, ci dicono che si ritorna a scuola con un’esigenza che ha a che fare molto meno con problemi di natura professionale e molto più con domande di natura personale e sociale. C’è a mio avviso l’esigenza di ritornare e di entrare in contatto con una parte di sé che è stata in qualche modo repressa, messa ai margini, sacrificata.

CP: Il fatto che queste persone studino in età matura riesce poi a cambiare in qualche modo le loro vite anche dal punto di vista lavorativo?

ASD: Io credo in parte di sì. Adesso, non saprei dare una risposta precisa. Ci sono persone che magari tempo prima hanno obbedito ad un imperativo di natura sociale e hanno fatto un percorso dentro ambiti professionali che alla lunga si sono rivelati insoddisfacenti, non adatti alla loro personalità. Queste persone a un certo punto ritengono di essere sufficientemente forti e sicure per poter dire: «va beh adesso faccio una scelta per me e non per – diciamo così – la società». E questa scelta credo possa portare anche a incontrare eventuali nuove opportunità di lavoro. Inoltre, rispetto alla riqualificazione professionale, bisogna sottolineare che le esigenze sono cambiate. Che spesso si torna all’università non per ricominciare un ciclo intero di studi, ma per ottenere pezzi di formazione. Per esempio, ci sono insegnanti che hanno delle lauree, a cui però manca il numero sufficiente di crediti per poter accedere alle classi concorsuali e quindi si iscrivono a singoli esami. Oggi c’è una sorta di pluralizzazione delle domande formative. Lo studente tradizionale come forma del vivere sta lentamente scomparendo e ci sono piuttosto degli utenti di un servizio educativo che chiedono di accedere a parti di percorsi formativi. Forse possiamo dire che lo studente nella sua forma tradizionale esiste ancora, però sempre di più fa spazio accanto a sé a un altro tipo di profili.

Andare all’università in età adulta, sia che si abbia una laurea precedente o meno, è quindi una pratica a cui sempre più persone si dedicano. Particolarmente interessante è a mio parere il fatto che il sapere può dare risposte a domande non solo di carattere pratico, ma anche umano e identitario. Il sapere non è quindi mera acquisizione d’informazioni ma un percorso affettivo e intellettuale di conoscenza del mondo e di sé.

Forse non è un caso che Dante racconti di aver intrapreso la sua iniziazione alla conoscenza nel mezzo del cammin di sua vita. Nel momento in cui la sua sensibilità affettiva e intellettuale era matura per cogliere il senso profondo del percorso e apprezzarne tutte le sfumature. Perciò, se state meditando di cominciare o tornare all’università, il mio consiglio è di iscrivervi senza esitazioni. E se avete paura di mettervi in gioco, ricordate che anche Dante prima di entrare nella selva oscura aveva una “fifa boia”: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinova la paura». Però poi il percorso di suo non poteva concludersi meglio.

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