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#workinprogress: sulla crisi del mercato del lavoro educativo e sul perché dovremmo frenarla

Articolo. Dal 2016, in Lombardia, i servizi alla persona sono in grave sofferenza a causa di un problema inedito fino a qualche anno prima, vale a dire il fenomeno che alcuni giornali hanno definito «la fuga degli educatori». Queste figure, sempre più preziose e richieste, sono divenute una risorsa scarsa. Al punto da costringere alcune strutture socio-educative a chiudere i battenti

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È il caso, ad esempio, di alcune comunità per minori, centri d’aiuto essenziali per contrastare il disagio giovanile e favorire il reinserimento sociale. Tra il 2021 e i primi mesi del 2022, in provincia di Milano, otto strutture di questo genere sono venute meno proprio a causa dell’impossibilità di reperire forza lavoro. «La situazione è critica in particolare in quelle pochissime strutture che accolgono sistematicamente ragazzi provenienti dal circuito penale dichiarava un anno fa al Corriere della Sera Silvio Premoli , docente in Università Cattolica e Garante comunale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza — diverse decine di adolescenti arrestati e destinati dai giudici a un percorso di recupero nelle comunità vengono rimandati nelle loro case, mentre si aspetta un collocamento per cui ci vorranno mesi. Il tempo d’attesa è raddoppiato negli ultimi due anni e questo aumenta il rischio di recidiva».

Si tratta di una criticità diffusa nell’intera rete dei servizi, con effetti sociali preoccupanti. Ma come si è arrivati a questa situazione? Facciamo un passo indietro. Quando, nel 2000, l’università di Bergamo avviò il corso di laurea in Scienze dell’Educazione, l’educatore professionale era una figura poco conosciuta, ancora in via di definizione sul piano giuridico e contrattuale, ma la cui domanda nel mercato del lavoro era in crescita vertiginosa.

Nel decennio precedente, un grande processo di ridefinizione della spesa pubblica aveva ristrutturato la rete dei servizi socio-assistenziali, affidando al neonato privato sociale (ossia tutte quelle sfere associative di società civile che operano in modo autonomo, con gestione privata, per finalità sociali e senza scopo di lucro) la risposta ai bisogni espressi dalle varie forme di fragilità sociale. L’espansione del terzo settore crebbe di pari passo con la progressiva ritirata dello Stato dal sociale, attraverso l’esternalizzazione di segmenti sempre più vasti del welfare. L’emersione di enti non a scopo di lucro avvenne in un’ottica non di affiancamento dell’intervento statale, ma di sostituzione dello stesso nell’erogazione dei servizi. Tutto ciò fu reso possibile dal costo inferiore della forza lavoro impiegata all’interno di questi enti, contraddistinta da livelli retributivi nettamente inferiori rispetto a quelli dell’impiego pubblico.

Per alcuni anni furono impiegati principalmente studenti universitari, giovani di prima disoccupazione o persone che, in seguito alla contrazione della domanda di lavoro nel settore dell’industria, necessitavano di una ricollocazione. Ma soprattutto tante donne che cercavano un lavoro part time conciliabile con la gestione della famiglia. Si trattava di una forza lavoro dequalificata e volatile. Rispondeva ai bisogni immediati, ma non era affatto adeguata a svolgere un mestiere così complesso e importante. Si avviò dunque un lungo e graduale percorso di professionalizzazione degli educatori professionali. Furono aperti corsi di laurea in tutto il Paese e furono introdotti sempre più requisiti formativi per accedere alla professione. Fino a che la laurea in Scienze dell’Educazione divenne un vincolo legale per assumere educatori.

Questo processo di professionalizzazione, tuttavia, non è stato accompagnato da un’adeguata crescita della condizione economica e contrattuale di queste figure. Mentre i requisiti aumentavano sempre più, i salari restavano al palo. Così, se nei primi anni Duemila erano appena sopra il salario di sussistenza, oggi si trovano al di sotto. Lo stipendio netto medio di un educatore assunto full time ammonta attualmente a circa 1.100 euro mensili . Ma la condizione reale della maggior parte degli educatori è ancor peggiore.

Ad eccezione delle strutture residenziali o dei centri diurni, è raro che un educatore riesca, con un unico incarico, a coprire le 38 ore settimanali previste dal contratto full time. Perciò molti di loro, nell’arco della giornata, si trovano a correre da un servizio all’altro, senza una programmazione logistica minimamente razionale. Devono usare mezzi propri e non hanno rimborsi per gli spostamenti. Con il conseguente aumento della giornata lavorativa effettiva e del tempo di lavoro non retribuito, già elevato a causa di tutto il lavoro indiretto, cioè le ore gratuitamente dedicate alla progettazione e organizzazione delle attività.

In sintesi, oggi scegliere di fare l’educatore significa impegnarsi in un percorso universitario almeno triennale, maturando nel frattempo esperienze sul campo attraverso tirocini o volontariato (tanti scelgono, per inserirsi nella rete dei servizi, di svolgere un anno di Servizio Civile Universale o di Leva Civica Regionale), per poi ritrovarsi in condizioni economiche e lavorative peggiori di alcuni lavoratori del settore delle pulizie. È bene ricordare che l’educatore è un mestiere logorante, carico di responsabilità, rischi e con livelli elevati di stress fisico e psicologico. Richiede molte competenze tecniche e trasversali e una forte motivazione etica. Eppure, nella percezione diffusa come nei contratti di lavoro, è assimilato alla bassa manovalanza anziché a figure quali l’assistente sociale o lo psicologo.

Come ci si può stupire se i giovani fuggono da questa professione? Per anni si è fatto affidamento, furbescamente, sullo slancio etico di questi giovani. Come se il mancato riconoscimento economico potesse essere sostituito da una ricompensa morale. Ma pure il più motivato dei missionari ha bisogno di sopravvivere per poter svolgere la sua missione. Gli stessi laureati in Scienze dell’Educazione stanno volgendo sempre più lo sguardo altrove, verso altri settori.

I nodi stanno venendo al pettine. Regione Lombardia, preso atto della grave emergenza segnalata dagli enti che non riescono a reperire il personale qualificato previsto dalle norme vigenti, ha dovuto approvare nel maggio 2022 una delibera che permette di assumere figure educative con requisiti formativi inferiori a quelli previsti dalla legge per evitare un crollo dell’offerta di servizi alla persona. Si cerca di tamponare in qualche modo. Ma senza interventi correttivi strutturali la situazione è destinata a precipitare, con gravi ricadute sul tessuto sociale.

In questi vent’anni di miopia si è inoltre ignorato un fatto ormai noto a tutti coloro che si occupano di mercato del lavoro: il lavoro educativo, come quello di cura più in generale, sarà quello meno esposto agli effetti dell’automazione. Intelligenza artificiale, rivoluzione informatica, taylorismo digitale sono processi che stanno trasformando interi settori, riducendo drasticamente la domanda di forza lavoro al loro interno. Anche il lavoro intellettuale è sempre più automatizzato o, grazie alle ICT, delocalizzato. Mentre il lavoro di cura richiede capacità relazionali che le macchine acquisiranno, forse, tra 200 anni. In futuro, dunque, sarà sempre più prezioso e costoso.

L’unica soluzione è che lo Stato, dopo anni di esternalizzazione e appalti al ribasso, torni ad essere un attore centrale nei servizi, invertendo la direzione. Riassorbire interamente i servizi nell’impiego pubblico non è realistico. Lo è invece una politica intermedia, di forte investimento statale, che vada a ridefinire i meccanismi di appalto, da un lato, e le condizioni economiche (e non solo) delle professioni educative e assistenziali dall’altro. Serve una valorizzazione economica, sociale e culturale di queste figure. Altrimenti questa emergenza nascosta, in tempi brevi, è destinata a irrompere nella società in modo brutale e doloroso.

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