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Perché il nostro approccio all’efficienza energetica negli edifici fa (letteralmente) acqua da tutte le parti

Articolo. Con lo stop alla cessione dei crediti del Superbonus, i punti di domanda sul futuro dell’efficienza energetica degli edifici sono molti. Proviamo a fare il punto della situazione a Bergamo, tra i tanti pannelli fotovoltaici installati e gli oltre 70mila edifici ancora in classe F e G

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Nel mio ultimo anno da studentessa universitaria fuori sede ho abitato in un appartamento mansardato in una via storica del centro di Bergamo. L’ultima settimana di agosto, mentre ero nel pieno dello studio per la sessione di settembre, una serie di acquazzoni intensi si è susseguita nel giro di pochi giorni. Dal soffitto è iniziata a scendere una goccia, poi due, poi sempre di più, finché non sono dovuta ricorrere a un secchio per raccogliere l’acqua che usciva da un buco nel soffitto. L’ho segnalato alla proprietaria di casa, che mi ha risposto: «Siamo nel centro storico, non posso toccare il tetto né fare niente per ripararlo. Vedrai che appena finiscono gli acquazzoni il soffitto smette di gocciolare».

Ho pensato proprio alla me sconsolata e quasi isterica – sottoposta alla tortura della goccia cinese durante la preparazione dell’ultimo esame della mia carriera universitaria – quando ho intervistato il professor Giuseppe Franchini dell’Università di Bergamo. In particolare, quando il professore mi ha spiegato le contraddizioni degli interventi di efficientamento energetico “all’italiana” e mi ha detto: «Si pensa che mettendo un pannello fotovoltaico sul tetto si migliori l’efficienza energetica di un edificio, ma se non si è agito prima sull’involucro sarà come mettere un coperchio sopra un secchio bucato: il secchio continuerà a perdere acqua».

Nel mio (estremamente spiacevole) ricordo, l’acqua c’era davvero e non si trattava solo di una semplice metafora per simboleggiare l’energia dispersa dall’edificio, ma l’aneddoto si collega anche ad un altro aspetto legato al tema dell’efficienza energetica: il fatto, cioè, che l’appartamento in cui vivevo era in uno dei 62 mila edifici della provincia di Bergamo costruiti prima degli anni Settanta (o, almeno, dei 62 mila per cui è stato richiesto un APE o «Attestato di Prestazione Energetica», come riportato dai dati SIAPE).

Un numero che, non a caso, quasi coincide con gli oltre 70 mila edifici (quasi la metà di quelli bergamaschi) con classe F e G, le peggiori in termini di prestazioni energetiche: «C’è una correlazione forte tra l’anno di costruzione e la classe energetica. Gli edifici in classe G sono per lo più edifici datati e non sottoposti a interventi di riqualificazione».

Una situazione disastrosa? Dipende da che prospettiva la si guardi. Come fa presente Franchini, che al dipartimento di Ingegneria dell’Università di Bergamo è professore ordinario nel settore scientifico disciplinare Sistemi per l’energia e l’ambiente, «Bergamo va meglio della Lombardia nel suo complesso, che a sua volta va meglio dell’Italia nel suo complesso. Gli edifici classe G a livello nazionale sono il 32,8%, a livello regionale il 31,3%, a livello provinciale il 30,3%. Via via crescono invece gli edifici virtuosi: le classi A a livello nazionale sono il 9%, in Lombardia il 10%, a Bergamo il 12%».

La strada da fare è ancora molta, nonostante il decreto legge del 16 febbraio che ha bloccato il Superbonus e le cessioni dei crediti: la normativa europea è in pieno fermento. Il Parlamento Europeo ha approvato la revisione della direttiva EPBD sulla prestazione energetica degli edifici: a partire dal 2028 tutti gli edifici residenziali dovranno essere a emissioni 0, mentre per le proprietà pubbliche la deadline sarà nel 2026. È richiesto che gli edifici residenziali raggiungano la classe di prestazione energetica E entro il 2030 e la D entro il 2033; gli edifici non residenziali e pubblici dovranno invece raggiungere le stesse classi rispettivamente entro il 2027 e il 2030. Gli edifici in classe G dovranno corrispondere a un massimo del 15% del patrimonio edilizio nazionale.

Primo step: l’involucro

Come possiamo raggiungere questo risultato? Su quali fronti muoverci? Franchini, che tra le altre cariche è anche Delegato del Rettore alla Transizione energetica, ci aiuta a stendere un piano d’azione. Con una premessa: «Dobbiamo vedere il singolo edificio come un sistema che, per assolvere alla sua funzione, ha bisogno di un input di energia. La funzione di un edificio è il livello di benessere delle persone che lo vivono, a diversi gradi: dall’edificio residenziale, dove la gente passa il proprio tempo libero e riposa, all’edificio industriale, dove ci sono macchinari e gente che lavora».

Fatta questa premessa, entriamo subito nel vivo con il primo step, tanto essenziale quanto troppo spesso trascurato (dando origine ai famosi secchi pieni di buchi di cui parlavamo all’inizio): «Il primo intervento ai fini dell’efficientamento energetico è agire sull’involucro. L’edificio è un contenitore, al cui interno vanno mantenute condizioni di temperatura e umidità confortevoli e per farlo serve un input energetico. Tanto migliore è l’involucro che definisce il contorno dell’edificio, tanto minore è l’energia necessaria per mantenere il comfort al suo interno».

Si tratta di tutti quegli interventi «che vanno a intervenire su quello che è noto come “cappotto”, ma anche sui serramenti e in generale sulla riduzione dei ponti termici, ovvero i punti critici dove avviene trasmissione di calore tra interno ed esterno», spiega Franchini.

Secondo step: gli impianti

Sistemato questo passaggio, è la volta dell’impiantistica. È necessario «utilizzare impianti in grado di funzionare in modo efficiente per introdurre e distribuire energia termica d’inverno ed estrarla d’estate, cioè che utilizzino meno energia primaria possibile a parità del risultato che si ottiene. La classe energetica identifica proprio questo: la capacità di un impianto di convertire l’energia primaria in energia finale, che può essere per esempio termica d’inverno e frigorifera in estate».

Per entrare nel dettaglio e dare un’idea di cosa questo voglia dire, Franchini fa degli esempi: «un impianto efficiente è un impianto che lavora alle temperature più basse possibile. Ecco perché il riscaldamento basato su pannelli radianti, come il riscaldamento a pavimento, è più efficiente dei termosifoni: questi ultimi richiedono un circuito di acqua calda a temperature fino a 70°C, mentre nel riscaldamento a pavimento la temperatura è molto più bassa (circa 35°C) e può essere raggiunta agevolmente appoggiandosi a impianti di energia rinnovabile, come il solare termico o a pompe di calore».

Sulle pompe di calore ci concediamo una digressione, vista l’innegabile attualità dell’argomento: è in discussione a livello europeo la possibilità di vietare la vendita di caldaie a gas a partire dal 2029. «Le pompe di calore – spiega Franchini – sono impianti che necessitano di due input: uno è naturale e gratuito ed è il calore disponibile nell’aria esterna (pompe di calore ad aria) o nell’acqua (pompe di calore ad acqua) o ancora nella terra (pompe di calore geotermiche); l’altro è l’energia elettrica. Se la pompa di calore è usata in un edificio dove c’è un impianto di riscaldamento a bassa temperatura, ha un’alta efficienza: consuma poca energia elettrica per produrre energia termica perché prende la maggior parte dell’energia termica già dalla fonte naturale».

Terzo step: le fonti rinnovabili

E arriviamo finalmente al terzo step, che deve necessariamente arrivare dopo i precedenti, pena l’inefficacia dell’intervento: l’utilizzo di energie da fonti rinnovabili, nelle due varianti più classiche di solare fotovoltaico e solare termico, rispettivamente per energia elettrica e termica. Qui abbiamo assistito in questi anni a un vero boom. In Italia, a fine 2021, risultano installati circa 1.016.000 impianti fotovoltaici, per una potenza complessiva di 22,6 GW e una produzione poco superiore a 25 TWh. Gli oltre 80 mila nuovi impianti entrati in esercizio nel corso dell’anno, per la maggior parte impianti con potenza inferiore a 20 kW, hanno incrementato di quasi 940 MW la potenza installata del Paese.

Qui sarà possibile anche fare un passettino in più e istituire Comunità Energetiche Rinnovabili (CER). Spiega Franchini: «Le CER, oggi in Italia presenti solo a livello sperimentale, sono un meccanismo che permette la condivisione dell’energia elettrica prodotta dagli impianti fotovoltaici. Quindi anche gli edifici che non possono installare impianti fotovoltaici possono beneficiare del consumo di energia rinnovabile se sono collegate con produttori che superano il loro fabbisogno e possono mettere l’energia in condivisione».

Guardando a un futuro meno lontano, quello che è necessario fare ora è «lavorare sul patrimonio edilizio esistente, perché sui nuovi edifici la normativa è stabilizzata e comunque sono pochi rispetto al volume totale del costruito. Ci vorranno forti investimenti sulla riqualificazione degli edifici esistenti, non finalizzata a un solo aspetto ma all’aumento dell’efficienza energetica nel suo complesso, con interventi completi che non trascurino nessuno dei tre step (involucro, impianti, fonti rinnovabili)».

Un deciso cambio di direzione rispetto a quella seguita finora, dalla quale dobbiamo prendere nettamente le distanze. Come fa presente Franchini, «il rischio è, come successo con il Superbonus, fare investimenti molto importanti ma incompleti e quindi controproducenti. I risultati raggiunti fin qui sono infatti ottimi ma non globali: abbiamo tantissimo fotovoltaico installato ma su edifici spesso scadenti dal punto di vista dell’involucro. La prima cosa da fare sarà recuperare le incongruenze degli interventi fatti in questi anni».

Insomma, tappare i buchi. E provare a fare uscire un po’ meno acqua.

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