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#workinprogress: il ruolo chiave nella transizione ecologica spetta alla politica

Articolo. Dal 2017 ad oggi, le aziende che investono in prodotti e tecnologie “verdi” sono cresciute del 51%. Eppure, per quanto necessaria, l’espansione della green economy non basterà a frenare l’emergenza climatica. Una riflessione sulle scelte (e le persone) che ci permetterebbero di invertire la rotta

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Gli opinionisti afferenti all’area più radicale della destra statunitense, quella genericamente definita «trumpiana», sono soliti chiamare gli attivisti per il clima «watermelons», «angurie». Il buffo appellativo intende svelare gli occulti fini socialisti che si nasconderebbero sotto la buccia verde dell’ambientalismo. «Green on the outside and Marxist red on the inside» è divenuto uno slogan molto popolare negli ultimi dieci anni grazie alla propaganda anti-green del Partito Repubblicano e di Fox News Channel.

Al di là dell’intento denigratorio, tale slogan contiene tuttavia un elemento di verità sul quale vale la pena soffermarsi, ossia il fatto che gli interventi necessari per affrontare l’emergenza climatica e ambientale eccedono, per dimensione e complessità, le possibilità di azione e regolazione dell’economia di mercato. Non è dunque errato sostenere che vi sia una qualche richiesta di implicita di “socialismo” — inteso qui come sinonimo di economia pianificata — non tanto nelle idee degli attivisti, quanto nella natura stessa del problema.

È la crisi ambientale a essere un’anguria. Non appena si rimuove il verde in superficie, appare il cuore “rosso” delle sue implicazioni logiche, politiche ed economiche. Ci pone dinnanzi a problemi globali che, per essere affrontati, richiederebbero istituzioni transnazionali che ancora non esistono. E un investimento nella ricerca scientifica pubblica — ossia orientata da interessi collettivi e indipendente da qualunque valutazione di profittabilità economica immediata — di ben altra scala rispetto alle quote dei bilanci pubblici attualmente destinate alla ricerca.

L’emergenza climatica necessiterebbe di istituire, in modo permanente, processi di ricerca e cooperazione a livello globale ancor più ampi di quelli messi in campo per la produzione dei vaccini anti-Covid (che hanno rappresentato, è bene ricordarlo, l’unico reale processo di coordinazione globale efficace che siamo stati in grado di mettere in atto, come specie, nella fase pandemica). Non si tratta di “sacrificare” il mercato in nome del bene collettivo. Stiamo parlando di infrastrutture politiche, giuridiche e scientifiche — transnazionali e pubbliche — da cui in futuro dipenderanno le condizioni di riproduzione della specie, e dunque del mercato stesso.

So che possono sembrare temi astratti, discorsi sui massimi sistemi. Eppure, quando ci si confronta con la crisi climatica, assumono immediatamente una dimensione materiale, concreta, numerica, da cui è difficile sfuggire. Prendiamo, come esempio della scarsa correlazione tra crescita della green economy e riduzione dell’impatto climatico e ambientale, il caso dell’Italia. Dal 2017 ad oggi le aziende che investono in prodotti e tecnologie “verdi” sono cresciute del 51% raggiungendo quota 531.000. E siamo pure divenuti leader europei nel settore dell’economia circolare, con un tasso di riciclo dei rifiuti dell’83,4% (la media europea è il 53,8%).

Ciononostante, negli ultimi sei anni, il nostro ritmo di riduzione progressiva delle emissioni ha rallentato anziché accelerare. Come scriveva Edo Ronchi qualche giorno fa: «Nel 2022 le emissioni di gas serra dell’Italia sono state pari a circa 418 milioni di tonnellate (Mton) di CO2 equiv. Dal 2014, nonostante il forte calo causato dalla pandemia nel 2020, le nostre emissioni sono calate molto poco: in media 2 Mton all’anno. Per rispettare i nostri impegni, europei e internazionali, dovremmo arrivare almeno a un taglio del 90% delle nostre attuali emissioni entro il 2050, quindi a un taglio di 14 Mton all’anno nei prossimi 27 anni: un passo 7 volte più veloce di quello che abbiamo tenuto negli ultimi 9 anni». Dai dati emerge chiaramente che, per quanto necessaria e auspicabile, non sarà l’espansione della green economy a permetterci di invertire la rotta.

Anche il Rapporto 2022 dell’ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), che analizza lo stato di avanzamento del nostro Paese rispetto all’attuazione dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, non fa che ribadire la situazione appena decritta, sottolineando come, a fronte di un’importante crescita della green economy, non si registri un effetto correlato dal lato della riduzione delle emissioni: «la riduzione delle emissioni registrata nel 2020 (-9,6%) non si è rivelata strutturale. Nel 2021, con la ripresa delle attività economiche, l’indicatore è tornato ai livelli registrati prima della crisi pandemica. La valutazione dell’andamento nel breve periodo si conferma, quindi, negativa, in quanto i progressi sono troppo lievi e non sufficienti al raggiungimento del target quantitativo». In sintesi, le scelte sostanziali, quelle che possono realmente incidere a livello sistemico, spettano alla politica.

Si tratta di una questione sempre più sentita anche nel mondo delle imprese “verdi”. L’entusiasmo dello slancio iniziale di molte startup, alcune di medie dimensioni, ha lasciato presto il posto alla consapevolezza della dipendenza del proprio mercato, e dunque delle sorti della propria impresa, dagli interventi legislativi, economici e infrastrutturali decisi a livello governativo. Infatti al centro del dibattito troviamo sempre di più non tanto il tema della green economy bensì quello del green new deal , con la conseguente accentuazione del ruolo dello Stato come promotore, investitore attivo, e non solo come censore, controllore e regolatore.

Recentemente ho partecipato a due convegni sulla transizione ecologica promossi da associazioni imprenditoriali. Il caso ha voluto che entrambi si svolgessero nei giorni della drammatica alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna. Uno sfondo che ha inevitabilmente condizionato lo svolgimento di tutti i dibattiti. Del variegato mondo dei cosiddetti green jobs era presente soprattutto la fascia medio alta — ricercatori, tecnici, imprenditori. Dalle loro parole non traspariva l’euforia e l’eccitazione dei pionieri della new economy di vent’anni fa, ma una speranza carica di preoccupazioni e incertezze. Il clima è cambiato, in tutti i sensi.

Si è parlato della difficolta di integrare processi democratici e processi scientifici in uno scenario di frammentazione politica verso il basso, vale a dire del ritorno di guerre e nazionalismi. Del fatto che l’Italia è l’unico grande paese europeo a non aver ancora approvato una legge sul clima, a differenza di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito. E l’alluvione ha fatto sì che tutti parlassero della drammatica carenza di adeguate misure di prevenzione per ridurre la vulnerabilità agli eventi climatici.

Tutto ciò accadeva mentre alcuni esponenti di spicco della politica italiana agitavano sui social lo spettro degli “attivisti imbrattatori”, spostando il fuoco dal tema dell’ambiente a quello dell’ambientalismo. Decisamente più sensata è stata la posizione espressa a fine convegno da una giovane ricercatrice — ora anche imprenditrice — del settore energetico quando, intervistata dalla tv locale, ha risposto alla domanda sulla pericolosità degli “attivisti” invitando a condividere le loro preoccupazioni anziché dibattere dei loro gesti. Una risposta sensata e responsabile che ha tuttavia suscitato le ire di un giornalista ribelle attempato il quale, dalle pagine del suo blog da combattimento, le dà della “sorosiana” e la cita come prova del fatto che sono le élite finanziarie globali a muovere i fili dell’attivismo ambientalista. Alla fine dei conti, scrive, «anche queste imprese green non sono che angurie».

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