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Ritornare umani attraverso il foraging

Articolo. «Prendi l’arte e mettila da parte» ci dicono sempre i nostri nonni per stimolare il nostro spirito critico e la nostra curiosità. Il foraging è una delle arti antichissime, intrinseche nell’umanità, che vanno riscoperte, conosciute, apprese e preservate. Cercheremo di spiegarvi oggi di cosa si tratta e perché, senza peccare di presunzione, una volta letto non potrete fare a meno che esserne affascinati

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Lentrée di questa discussione è l’ etnobotanica , ovvero la scienza che studia le relazioni fra un popolo e le piante con le quali quel popolo si è evoluto. Dare spazio e valore a chi conosce i ritmi e le proprietà delle piante significa in un certo senso liberare il mondo vegetale dalla gabbia in cui l’abbiamo rinchiuso, per lasciarlo esprimere in un rapporto di reciproco vantaggio. Parleremo quindi del foraging, che è una chiave di volta pratica dell’etnobotanica.

Primo piatto: perché il foraging è una tendenza virale del momento?

Ecco che iniziano le portate serie, quelle con cui farci la scarpetta. In questi giorni apro sempre la mia pagina Instagram piacevolmente sorpresa: tra un video di bassotti e l’altro spuntano qua e là foglie di aglio orsino e baristi affascinanti che shakerano cocktail fioriti.

C’è una parola che compare in tutti i menu dei ristoranti più alla moda della città: «selvatico», che riferito al mondo vegetale identifica uno sviluppo indipendente dall’opera umana. Funghi selvatici, porri selvatici, erbe selvatiche. Le piante raccolte direttamente dai loro habitat naturali si sono fatte strada nei nostri piatti, attraverso lo sguardo innovativo di molti chef, bartender e cuochi casalinghi che hanno osservato i boschi, i campi e gli specchi d’acqua locali da una nuova prospettiva più ravvicinata. La Guida Michelin ha recentemente lanciato una stella verde per i «ristoranti all’avanguardia del settore quando si tratta di pratiche sostenibili». Molti, se non tutti, servono ingredienti foraggiati, contribuendo a portare il cibo selvatico all’attenzione dei commensali.

I ricettari antichi sono pieni di fiori e piante spontanee commestibili, ma le cose sono cambiate, come accade per vari campi del sapere e fenomeni culturali, con la rivoluzione industriale. Tutti i riferimenti ai fiori commestibili nel cibo sono scomparsi perché erano visti come “roba di campagna squallida”, non sofisticata. Invece ora, che siamo arrivati all’apice del progresso tanto agognato, siamo paradossalmente tornati al punto di partenza.

Secondo: l’uomo come cacciatore raccoglitore

Per il 95% del loro tempo sulla Terra, gli umani si sono sostenuti con la pratica del foraging, cioè cacciando e raccogliendo cibo dal loro ambiente naturale.

Con la nostra vita frenetica, che vede specialmente il cibo come il frutto di una catena di montaggio, ci vuole un po’ di immaginazione per pensare di trovare cibo quotidianamente nell’ambiente naturale. Eppure, questo è proprio ciò che gli esseri umani hanno fatto per la maggior parte della loro vita, dalla loro apparizione circa 200.000 anni fa fino a circa 11.000 anni fa, quando iniziarono a sviluppare l’agricoltura.

Gli umani non sono le uniche creature che foraggiano, anche molti animali lo fanno. Cosa c’è di diverso nel foraging umano? Le risposte possono variare, ma l’idea comune sarebbe che gli esseri umani, attraverso la loro capacità di comunicare verbalmente, hanno accumulato conoscenza, l’hanno trasmessa alle generazioni più giovani e hanno lavorato in modo cooperativo. Queste abilità hanno permesso agli umani di perfezionare gradualmente i loro metodi di foraggiamento, distinguendosi ulteriormente da alcuni dei loro concorrenti nel regno animale.

In effetti, si potrebbe dire che il foraging ci ha resi umani. Poiché gli alberi da frutto nella foresta pluviale sono diventati meno abbondanti nel clima fresco e secco, gli ominidi sopravvissuti hanno dovuto trovare altre fonti di cibo. Mentre lo facevano, molti tratti si sono evoluti: il bipedismo, la perdita della peluria, intestino più piccolo, cervello più grande e migliore comunicazione. Questi sono essenzialmente i tratti distintivi dell’essere umano.

Contorno: andare oltre gli stereotipi socioeconomici

La pratica del foraging che era iniziata come una necessità universale nel corso della storia umana, sfortunatamente, si è evoluta in un indicatore dello stato socioeconomico, poiché nelle più svariate epoche coloro che disponevano di minori risorse finanziarie ricorrevano al foraggiamento per mettere il cibo in tavola. Fino ad arrivare ai giorni nostri quando, forse ironicamente, gli ingredienti raccolti localmente – vedasi i tartufi – sono diventati un segno distintivo di molti programmi culinari di alto livello e l’argomento si è ritagliato un enorme seguito su piattaforme di social media.

Nonostante un boom di popolarità, il foraging non è qualcosa a cui la persona media pensa quotidianamente e garantire metodi sicuri di foraggiamento selvaggio può richiedere pratica, quindi non è un hobby in cui tuffarsi alla cieca. Occorre affidarsi alle famiglie di piante per sapere se sono buone o cattive, perché in questo caso è bene fare di tutta l’erba un fascio.

La vera domanda diventa: come si può sapere a quale famiglia appartiene una pianta? «Si assomigliano, proprio come le famiglie delle persone». Occorre imparare le caratteristiche comuni: i lineamenti, i tratti somatici e, perché no, la personalità. Per farvi un esempio, le ranuncolacee sono tutte “carogne” dai fiori simili; mentre le labiate stanno bene “pestate”.

Dolce: da dove cominciare con questo “indovina chi”?

Ecco il gran finale, il dessert, che in questo caso non è smielato e stucchevole, ma agrodolce. Ovviamente il mio intento era quello di sensibilizzarvi e incuriosirvi, ma non si tratta di un gioco da ragazzi e tantomeno di improvvisazione. Le piante sono tanto squisite quanto letali.

Innanzitutto, occorre imparare a riconoscerle. Per cominciare, è necessario prendere decisioni di base in merito a luogo, stagione, ora del giorno, mezzo di trasporto, abbigliamento e scarpe, utensili e confezione, modalità di lavorazione. Ogni singolo dettaglio influenza la raccolta, persino la suola della scarpa: alcune piante sono più saporite se pestate, altre invece sono effimere e altre ancora sotto la suola degli scarponi diventano amarissime e fibrose.

In secondo luogo, è fondamentale imparare a cucinare con ciò che si foraggia. La mia raccomandazione è di iniziare con la realizzazione di queste quattro forme culinarie di qualsiasi materiale foraggiato: polpa (non pesto, che è un pasto italiano registrato), zuppa, frittella e fermento. Acquisirete così esperienza e conoscenza. Vi piacerà questa libertà culinaria, priva di ricette rigide, senza quantità o numeri precisi, ma piuttosto una guida per comprendere materiale e processo.

Il digestivo: un doveroso ritorno alle origini

Il foraging, se praticato correttamente, senza abusi, è un bisogno urgente. Le foreste e i loro margini, i prati e i fiumi sono state le case degli umani per secoli. È qui che ci stabilivamo, dove il cibo veniva raccolto, creato e consumato in modo comune o rituale. Oltre la metà dell’umanità vive in aree urbanizzate, eppure non possiamo più concentrare la nostra vita nelle città. Dobbiamo tornare a uno stile di vita estensivo e a un uso sostenibile delle risorse naturali.

Un inizio del processo di deurbanizzazione può anche consistere nel rievocare la conoscenza delle piante incolte e la manifattura artigianale. Ormai miliardi di consumatori sono come turisti ciechi quando fanno escursioni nei boschi: sanno usare le app, ma non conoscono le specie viventi e le tradizioni.

Non si tratta più di sopravvivenza, ma piuttosto dell’abitudine quotidiana di mangiare ciò che cresce intorno. La parola «selvaggio» o «selvatico» allontana le persone: per molti è l’opposto di sicuro, coltivato, controllato, prevedibile. Eppure, abbiamo cibo gratis ovunque. Un forager non è un fenomeno da baraccone, ma una persona saggia e rispettosa del miglior slow food locale che abbiamo.

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