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L’antica (e profumata) arte del cuoio rivive nelle mani di Silvia Gustinetti

Articolo. Al suo laboratorio, a Seriate, ha dato il nome di «Silwart». Perché tra forbici e colori c’è spazio un po’ per lei, l’artigiana, e un po’ per Ulwarth, fedelissimo lupo cecoslovacco. Soprattutto, c’è spazio per la pelle conciata al vegetale, che richiede tempo, pazienza e amore

Lettura 6 min.
Silvia Gustinetti al lavoro (Foto Marialuisa Miraglia)

«Il laboratorio al momento è all’interno della mia abitazione, quindi non ti sorprendere quando arriverai in una zona residenziale. Potremo goderci la chiacchierata con un buon caffè». È una mattina di sole sorprendentemente calda, per cui decido di lasciare il cappotto in auto prima di incamminarmi lungo via Monte Aga, a Seriate. Ad accogliermi, al numero 41, è un abbaiare curioso. Silvia Gustinetti, capelli sciolti, foulard colorato stretto al collo, tiene al guinzaglio Ulwart, un bel lupo cecoslovacco dal manto chiaro e folto.

Capisco che, per entrare in casa, devo chiedere il permesso ad entrambi. Dove va l’una, l’altro la segue. In cucina, mentre Silvia aspetta che la moka gorgogli; in soggiorno, dove intingo nella tazza di caffè un biscotto al cioccolato; e poi in laboratorio, un angolo della casa che Silvia ha adibito alla creazione di borse in cuoio, portafogli, accessori. Tutti prodotti che l’artigiana vende online, sulla sua pagina Instagram e di persona, nei principali mercatini dell’artigianato lombardi.

Non è sempre stato così, mi racconta la mia interlocutrice, quarantasette anni, di cui tanti, troppi, trascorsi davanti alla tastiera di un computer. «Ho studiato per poter viaggiare, e così ho fatto per una quindicina d’anni, prevalentemente nel settore petrolchimico. Mi muovevo per il mondo, facevo trattative importanti, mi piaceva molto. Poi, per questioni familiari, ho dovuto raggiungere i miei nell’azienda di famiglia, un’azienda di trasporti, e sono stata con loro dieci-undici anni».

A un certo punto, Silvia comincia a sentirsi persa. Le mancano le novità, gli stimoli che le dava l’attività precedente. Soprattutto, le manca il tempo. «Negli ultimi anni, avevo raggiunto dei ritmi esagerati. Avevo bisogno di ritrovarmi, di passeggiare all’aria aperta, di fare uno stop. Di dire basta al pc, basta alle dodici ore davanti allo schermo. Ho lasciato il lavoro – fortunatamente potevo permettermelo, non ho mai contato le ore e ho risparmiato tanto – e mi sono detta: “trovati un hobby che si possa fare con le mani, un hobby che sia lento”».

Lezioni di manualità

Da mia nonna sarta non ho ereditato l’arte di trasformare stoffe in abiti da sposa, né la pazienza di infilare fili sottilissimi nella cruna di un ago. Mia sorella invece sì. Di solito, la manualità è un qualcosa che si tramanda da nonna a nipote, da mamma a figlia, qualcosa che – così mi hanno confidato gli artigiani e le artigiane che mi è capitato fino ad ora di incontrare – dopo essere stato messo da parte a lungo, in un momento della vita riemerge. Per Silvia non è stato così: «La mia manualità era semplicemente la tastiera del pc. Sì, da piccola facevo un po’ di ricamo, uncinetto, ma no… questa capacità manuale mi mancava completamente».

Al cuoio si avvicina per caso, ricordando il profumo che l’avvolgeva quando, da bambina, frequentava i corsi d’equitazione. «La parte che preferivo era vivere la scuderia, accudire il cavallo, pulirlo e soprattutto vederlo al prato libero di muoversi… Il profumo dei finimenti, delle selle, mi è sempre piaciuto. Ho detto: “proviamo a lavorare il cuoio”. Posso farlo anche a casa, senza avere strumentazioni particolari. Ho cominciato da autodidatta, guardando video su YouTube. Di giorno lavoravo con le mani, la sera studiavo… Mi sono accorta che utilizzare le mani mi rilassava, mi stava aiutando a ritrovare me stessa, a placarmi, a ridare importanza al tempo».

Mentre parliamo, Ulwarth si appisola ai piedi della sua padrona. Anche lui – sorride Silvia – sta riscoprendo il tempo. «Sono sempre stata molto legata alle tradizioni. Navigando sul web, mi sono imbattuta nella bottega di un maestro artigiano in Toscana. Sono stata da lui un mese, un uomo di una settantina d’anni con un’esperienza infinita nella selleria e in vari ambiti della lavorazione del cuoio. Lì, ho ritrovato quel rapporto umano che qua mi sembra così difficile coltivare: quando ero piccola c’erano le botteghe in paese, non c’erano i centri commerciali... quando andavo con la zia o con il nonno a fare la spesa, a comprare le caramelle al Consorzio, c’era sempre questa occasione di ritrovarsi, di chiacchierare».

In bottega, Silvia non solo impara a tagliare, forare, incollare, ma instaura con il maestro artigiano un intenso rapporto d’amicizia. Lo accompagna, nel febbraio 2022, ad una mostra di alto artigianato artistico a Lugano. «Il mio maestro non solo doveva preparare tutta l’esposizione, ma addirittura occuparsi dell’esportazione temporanea. Quella era la mia specializzazione dai tempi del mio primissimo lavoro. Gli ho organizzato così tutta l’esportazione, la procedura doganale; in più abbiamo insieme realizzato insieme alcuni articoli: forme solide di design per l’arredo».

Cuoio e pellame

La storia del cuoio affonda le sue radici in tempi molto antichi. Silvia me la racconta solo dopo aver fatto una premessa: «nessun animale viene ucciso per ottenere il cuoio. Tutta la pelle lavorata dalle concerie viene dagli scarti della filiera alimentare, che produce centinaia di tonnellate di pelli che altrimenti andrebbero al macero. È una forma di riciclo e riuso».

Di più: esistono due tipi di concia, ovvero di lavorazione della pelle. La maggior parte delle concerie esegue una concia al cromo, tecnica da cui si ricava il pellame esposto nei negozi di abbigliamento o di pelletteria. «Si tratta di una concia chimica, inquinante, che va ad alterare le proprietà naturali della pelle. Con il termine “cuoio” si intende invece il pellame conciato al vegetale. È una concia antichissima, che si usava per fare calzari, armature, bisacce».

Si narra che un uomo nei tempi antichi avesse dimenticato un pezzo di pellame in una botte, al di sotto di una pianta, e che nel corso di una notte piovosa la botte si fosse riempita d’acqua. La mattina dopo, l’uomo si accorse che quella combinazione di acqua e residui della pianta aveva reso la pelle più morbida, più bella. Nascerebbe da qui, probabilmente, quella procedura conciaria che utilizza i tannini estratti dalle piante. Una tradizione che si è tramandata nei secoli, soprattutto in Toscana, nella zona di Santa Croce sull’Arno. «Le migliori tra queste concerie fanno parte di un consorzio che si chiama “Consorzio Vera Pelle Conciata al Vegetale in Toscana”. Questo consorzio, a cui mi rivolgo anche io, garantisce che le concerie aderenti producano solo ed esclusivamente pellame a concia vegetale, quindi cuoio. È una procedura lenta, che utilizza ancora le tecniche manuali. Non c’è nulla di chimico, ciò che viene scartato viene riutilizzato come fertilizzante per l’agricoltura: tutto è naturale, tutto ritorna in natura».

L’unicità della «pecora nera»

Mentre parla, Silvia mi mostra gli attrezzi del mestiere: cere, vernici, forbici, strumenti con cui levigare i bordi. E poi, naturalmente, il cuoio, di cui l’artigiana si rifornisce in conceria. «Non ho grandi capacità di disegno a mano libera quindi, a differenza dei designer che abbozzano il prodotto, io tengo tutto a mente. Ho poi saputo dal mio maestro artigiano che la mia procedura era corretta. Inizio facendo un disegno tecnico, un modello. Da quel modello, si ricava una prova, che si chiama “prototipo”, con un pellame che non è di prima scelta ma dev’essere comunque pellame, non carta né stoffa. Solo alla fine si arriva al campione, alla versione finale. A differenza della sartoria, dove puoi sistemare i tessuti, allargare, stringere l’orlo, con il cuoio questo non succede. Una volta che lo fori per la cucitura, quello resta. Devi fare un lavoro perfetto sul disegno, sul prototipo e sul campione, perché poi quando realizzi il prodotto non hai margine di errore. È un mestiere che si basa sulla perfezione, sulla pazienza e sulla pignoleria».

Sul bancone, Silvia dispone tre borse dal colore acceso. Mi invita ad osservarle, ad accarezzarle. La mano scorre sulle venature del cuoio, che sembrano quelle delle foglie, ben marcate, rugose, libere di imboccare ogni volta direzioni diverse. «Quando ho cominciato a produrre i primi modelli, ho pensato a ciò che piaceva a me: sono partita dal mio gusto personale, non tanto dalla moda. Ho pensato all’utilità, a borse comode, grandi, oppure a tracolle leggere, utili quando passeggi con il cane e magari non hai le tasche. E poi, ho riflettuto sul valore dell’unicità. Ho questa convinzione, forse sbaglio… per via della globalizzazione, del fatto che il sistema tende a volerci tutti uguali, ogni tanto qualcuno sente la necessità di dire “no, non voglio essere una pecora tra tante pecore”, oppure “preferisco essere una pecora nera tra tante pecore bianche, perché magari non piaccio al mio pastore, ma sono diverso e mi si vede”».

Il sogno

Silvia Gustinetti ha un sogno. Il sogno di aprire una piccola bottega, dove sentire il cuoio «nelle mani, con gli occhi e con il naso, perché la concia al vegetale profuma. Vorrei che la mia bottega fosse un salottino dove le persone possano entrare, guardare, curiosare, ma anche sedersi, magari davanti a una tazza di caffè». Un luogo dove poter constatare come il cuoio si evolva sempre, nei suoi colori e nella sua consistenza: «Il cuoio dura nel tempo. Anzi, con l’utilizzo migliora. I colori più tenui, come i marroni, assorbono la luce del sole, si abbronzano».

Le borse che Silvia realizza sono fatte per durare. Contro il concetto di usa e getta, contro lo spreco. Certo – di questo l’artigiana è ben consapevole – richiedono una spesa importante. Come del resto lo richiedono tutti quei prodotti che raccontano una storia. «In un oggetto fatto a mano lasci sempre qualcosa di tuo: il tempo, la fatica, ma non solo. Ci lasci le emozioni che provi mentre lo realizzi».

Mentre Silvia parla, gli occhi le si bagnano di lacrime. «Di recente ho seguito alcuni webinar organizzati da Confartigianato sulla neuroscienza. Dicevano che oggi abbiamo perso la capacità di emozionarci di fronte alle cose semplici, tanto è vero che adesso i grandi brand creano dei video emozionali per ispirare emozioni nelle persone… Ma perché devo guardare dei video emozionali quando basta che guardi il mio cane che insegue le api, gli alberi fioriti sulla pedonale, le venature del cuoio? A me questo basta».

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