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Esplorando il Joiint Lab, un viaggio nel laboratorio di robotica di Bergamo

Articolo. Alter Ego, per gli amici solo «Ego», è un piccolo robot alto come un bambino delle scuole elementari di colore blu e nero e dall’espressione simpatica. Ha una piccola testa e due braccia complete, ma non ha gambe. Al loro posto due ruote che ricordano un po’ l’overboard e che lo costringono a restare sempre in movimento per ricercare il proprio equilibrio

Lettura 5 min.

Ego è uno dei primi robot che si incontrano entrati al JOiiNT Lab presso il Parco Scientifico e Tecnologico Kilometro Rosso, il laboratorio di robotica nato un paio di anni fa che ospita quindici persone fra ricercatori e ingegneri coordinati dal direttore scientifico del progetto, il professor Antonio Bicchi.

Ego è un robot avatar, ovvero un’interfaccia fisica remota che permette di svolgere operazioni a distanza. È perfetto in quelle situazioni di difficoltà oggettiva o di pericolo per la salute umana come possono essere i luoghi di una catastrofe o altri ambienti con condizioni difficili. Ma in tempi in cui si è conosciuto il significato di lockdown e lavoro a distanza, il suo utilizzo, in verità, si allarga a tutti quegli interventi che richiedono una presenza fisica anche quando si è impossibilitati a viaggiare.

Robot Avatar

Indossando dei sensori su braccia e busto e dei visori appositi, un operatore può “entrare” in Ego e il robot replicherà ogni suo movimento. Questo concetto dell’ingresso nell’interfaccia remota rende al meglio le potenzialità e il funzionamento di questi robot. Di fatto gli avatar sono in grado – grazie alla tecnologia studiata dal laboratorio – di replicare non solo le azioni umane, ma di percepire la forza che l’operatore mette nel compiere l’azione.

Quanto si solleva il braccio, quanta forza pone la mano nello stringere un oggetto, con che velocità realizza l’azione: sono solo alcuni dei messaggi che attraverso la connessione passano dalla persona al robot grazie ai sensori indossati.
Questo rappresenta uno sviluppo ulteriore rispetto all’automazione industriale, che è calibrata su una linea produttiva tendenzialmente fissa e invariabile. In questo caso il robot deve avere quella flessibilità tipica del corpo umano, che è in grado di controllare la forza applicata e regolare in brevissimo tempo il proprio movimento.

Questa è solo una delle tecnologie presenti all’interno del JOiiNT Lab, che si occupa del trasferimento tecnologico e di creare una sinergia tra il mondo della ricerca e le esigenze industriali.

Come nasce

Il laboratorio è nato circa due anni fa dall’intuizione di Gianluigi Viscardi, imprenditore visionario e presidente del Consorzio Intellimech, consorzio dedicato alla meccatronica che conta quarantaquattro soci. La volontà iniziale è stata quella di inserire nell’ecosistema bergamasco un laboratorio in cui la ricerca robotica fosse funzionale alle idee e ai bisogni delle aziende – che infatti trovano nel Joiint Lab un luogo in cui presentare i propri problemi o proposte e studiare delle soluzioni.

Alla volontà del consorzio si è unita quella dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova che ha dato vita, nei fatti, a una proficua collaborazione fra le ricerche già presenti nel laboratorio liguri e l’esperienza imprenditoriale orobica. Alla realizzazione e al mantenimento del Joiint Lab collaborano inoltre Confindustria Bergamo, il Parco Scientifico e Tecnologico Kilometro Rosso, l’Università di Bergamo e alcune aziende «Champion» del Consorzio che hanno aderito al progetto.

Ma non tutto quello che si fa all’interno del laboratorio ha esclusivi fini commerciali, sono tanti i progetti che, nascendo da un bisogno, portano a ulteriori sviluppi tecnologici.

Cosa si studia

Ci sono quattro principali ambiti che vengono indagati all’interno del Joiint Lab. Innanzitutto si cerca di semplificare la programmazione robotica in modo che sia più facile gestire il sistema anche per chi non è avvezzo alla tecnologia. In termini pratici significa porsi la questione che i robot, entrando sempre più a contatto con le persone, devono poter essere “usati” anche da chi non ha specifiche competenze di ingegneria.

Non stiamo parlando di fantascienza, chi lavora in alcune aziende particolarmente innovative ha già potuto interfacciarsi con questi meccanismi di automazione che sono, per lo più, braccia meccaniche che avvitano o assemblano alcuni pezzi. In questo caso il lavoro messo a punto dal laboratorio bergamasco non è rivolto alla semplice programmazione, ma alla creazione di un apprendimento dell’interfaccia robotica attraverso l’imitazione dei gesti dell’operatore. Semplificare l’intelligenza artificiale della macchina per permettergli di apprendere così come fosse uno stagista al suo primo giorno è un’operazione complessa, ma essenziale per lo sviluppo della robotica collaborativa in cui le persone hanno necessità di mostrare al robot le operazioni da svolgere in modo semplice e veloce.

Un altro ambito di intervento è quello della logistica. I magazzini sono automatizzati solo in parte, ma l’estenuante lavoro del personale è ancora insostituibile proprio perché solo l’essere umano ha determinate capacità e competenze. È decisamente complesso spiegare a un’interfaccia robotica, pur dotato di mani flessibili, come regolare la propria forza e i propri movimenti per prendere una scatola. Un’operazione che per qualsiasi persona risulta al limite della banalità e che apprendiamo fin da piccoli, ha una traduzione molto più complessa in termini robotici.

Il terzo ambito di ricerca e progettazione è quello della collaborazione uomo-robot. Sembra che ogni aspetto fin qui descritto in realtà si occupi di questo, ma quando una persona opera accanto a un robot ci sono delle dinamiche specifiche di cui i ricercatori devono tenere conto. I robot, per esempio, non si stancano, non hanno braccia o gambe che si indolenziscono, non si prendono il tempo di riflettere su una decisione e non interagiscono con le altre persone nell’ambiente di lavoro. Tutti questi aspetti della persona richiedono da parte della macchina un’adattabilità non scontata.

Infine, ad impegnare i ricercatori è lo studio della remotizzazione di attività fisiche. Ancor prima del suo apprendimento, infatti, il robot avatar è un involucro umanoide che permette di svolgere delle azioni a distanza, ma a differenza di una persona può solo vedere e ascoltare. Anche in questo caso percezioni “banali” come il tatto, l’olfatto, la riflessione attorno a un ambiente, sono informazioni che il cervello umano raccoglie ed elabora molto velocemente, ma che un’interfaccia robotica non è ancora in grado di comunicare con la stessa ricchezza.

Casi concreti

Nell’agosto del 2016 Walk-man, robot di teleoperazione precursore di Ego, è arrivato ad Amatrice. Tutto il territorio era appena stato colpito da un terribile terremoto. Ad oggi la tecnologia non è ancora in grado di utilizzare robot umanoidi per sollevare macerie e intervenire nella ricerca di dispersi.

Occorre un livello di sicurezza che richiede tempo e anni di studio, ma già oggi i robot possono rivelarsi ugualmente molto utili in queste situazioni. Nel caso specifico Ego, pilotato a distanza da un operatore che indossa sensori e oculus può entrare negli edifici pericolanti, verificare le condizioni interne e mettere in salvo oggetti custoditi all’interno.

Riflessioni

Entrare in un laboratorio di robotica ed avere a che fare con le singole parti di un robot, la loro programmazione e il loro sviluppo è un’esperienza toccante. Non tanto per ciò che le macchine riescono a fare o per come i ricercatori riescono a insegnare loro delle azioni. Quello è un effetto che potremmo chiamare in maniera più corretta «wow». Muovere una mano robotica in tutto simile alla propria mano è effettivamente curioso e divertente e sprigiona una meraviglia bambinesca, ma ciò che resta più di ogni altra cosa nell’osservare come i robot nascono e crescono è la consapevolezza di quante abilità possiede una persona.

Ci sono centinaia di migliaia di gesti che compiamo inconsapevolmente. Nel prendere una penna, rigirarcela fra le mani e azionarla, ad esempio, una persona agisce e pensa andando spesso ben oltre alla semplice azione dello scrivere. Inclinando la testa davanti a un pannello di controllo cambiamo la nostra percezione visiva in maniera istintiva, andando a cercare, senza una reale consapevolezza, un differente punto di vista che possa fornirci una soluzione differente.

Al contempo, quel meccanismo così perfetto che è l’essere umano ha un numero altissimo di limiti fisici e di pericoli a cui è sottoposto che un robot non ha per la sua stessa composizione. Questa consapevolezza permette di capire, in maniera più profonda, quanto la ricerca tecnologica possa in realtà potenziare le capacità umane e al contempo quanto complesso sia adattare la ricchezza del nostro agire all’azione meccanica.

Forse è proprio questa consapevolezza che potrà permettere, nel prossimo futuro, una più facile accettazione della presenza di robot nelle nostre vite, ora che il percorso tracciato viaggia a una velocità mai vista prima.

Francesca Negrello, responsabile operativa del Joiint Lab, infatti, spiega: «La ricerca robotica in questi anni cresce molto velocemente. Già ora la rete, la tecnologia e le connessioni a nostra disposizione ci permettono di compiere molte azioni e possiamo robotizzare parti meccaniche. Abbiamo dispositivi accessibili sia in termini economici che tecnologici che ci permettono di accelerare le fasi di sviluppo di un progetto e tutto il settore sta andando verso un’uniformità dei dispositivi robotici, superando quella compatibilità fra sistemi che ha posto spesso dei limiti in passato». Questo significa che ricerca e mercato stanno viaggiando quasi all’unisono e le potenzialità di un mondo robotico potranno presto ampliare il limite del possibile.

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