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Perché non riusciamo più a fare a meno degli smartphone?

Articolo. Dall’intrattenimento alla dipendenza: un’analisi della ricerca del piacere sui social network e delle conseguenze sulla vita degli utenti

Lettura 5 min.

Avevo quattordici anni quando ho ricevuto in regalo dai miei zii il mio primo cellulare. Mi ricordo ancora la sensazione che ho provato mentre aprivo la confezione, il colore, il profumo di quei circuiti immacolati, lo schermo che si illuminava. Si trattava di un LG, il videofonino sponsorizzato dalla compagnia telefonica 3 che aveva come particolarità una fotocamera integrata che ruotava dall’interno all’esterno e che permetteva di fare selfie – prima che si chiamassero selfie – oltre alle classiche panoramiche.

Da allora non sono più riuscita a farne a meno: in viaggio, a pranzo con gli amici, durante le passeggiate e sì, perfino in bagno. E mentre c’è chi dice che questo dispositivo ci ha resi più potenti e performanti, io da quando ho il cellulare, l’unico numero di telefono che riesco a ricordare è quello di mia madre. Infatti, quando mi è successo di perderlo, non sapevo chi contattare. Dal momento che l’unica persona che potevo chiamare senza cliccare sul comodo tasto «rubrica» di certo non avrebbe potuto aiutarmi a trovarlo, vivendo a 1200 km di distanza.

Il cellulare mi ha salvato dall’imbarazzo di non ricordare i compleanni, gli appuntamenti, la lista della spesa. Ma oggi non sarei capace di ricordare i dettagli di una conversazione di WhatsApp se non si salvasse la cronologia in automatico. E soprattutto ho capito auto-analizzandomi che il cellulare è diventato la mia più grande fonte di distrazione.

Ho cominciato a fare caso al mio rapporto con lo smartphone quando ho notato che il solo sentire il suono della notifica del cellulare mi causava stress, accelerazione del battito cardiaco, ansia. Tanto da costringermi a interrompere qualsiasi attività per controllare cosa stesse succedendo lì dentro. Ma mi sono accorta che le ragioni per le quali tiro fuori il telefono sono diverse: alcune pratiche (guardare l’ora), altre inconsce e altre cariche di intensità emotiva (ansia).

Ogni volta che controlliamo un nuovo post su Instagram o andiamo sul sito di un giornale per leggere le ultime notizie, non conta quello che leggiamo: si tratta solo del piacere di scoprire qualcosa di nuovo. È questo che ci rende dipendenti. I social network sono diventati una fonte inesauribile di intrattenimento e piacere per milioni di utenti in tutto il mondo. L’ascesa di queste piattaforme ha aperto nuove possibilità per cercare e soddisfare il desiderio di piacere e gratificazione immediata. Tuttavia, la ricerca del piacere su queste piattaforme presenta diverse sfaccettature e solleva importanti questioni sulla nostra società digitale.

Che cosa intendiamo quando parliamo di dipendenza?

Iniziamo analizzando come i social network offrano molteplici forme di svago. Dalle foto di viaggi esotici ai video comici, dalle notizie virali agli aggiornamenti sulla politica. I social racchiudono una vasta gamma di contenuti che mirano a suscitare emozioni positive e a divertire gli utenti. Questo tipo di narrazione è diventata parte integrante della nostra vita quotidiana, creando una dipendenza sempre più diffusa verso la ricerca costante di piacere e di approvazione.

Gli utenti possono così sviluppare una dipendenza da social network, spesso caratterizzata da un bisogno compulsivo di controllare costantemente le notifiche, di ottenere «mi piace» e condivisioni sui propri contenuti, o di confrontarsi con la vita (idealizzata) e i successi degli altri. Questa dipendenza può avere conseguenze negative sulla salute mentale, sulle relazioni interpersonali e sulla produttività.

Gli internauti spesso cercano di presentarsi nel modo più attraente possibile, curando la propria immagine online e questo può portare a una pressione sociale per conformarsi a determinati standard estetici e comportamentali, causando insicurezze e bassa autostima in coloro che cercano di uniformarsi a queste rappresentazioni fittizie. La continua ricerca di approvazione e di una validazione online mette a rischio l’autostima e la fiducia in sé stessi. Eppure non riusciamo a farne a meno. Perché gli smartphone hanno qualcosa di totalmente diverso rispetto alle tecnologie del passato. Ci parlano, ci assillano, pretendono attenzione e ci ricambiano quando gliela diamo.

Ma c’è un aggravante. Perché il meccanismo col quale sono progettati i nostri telefoni agisce sulla chimica del nostro cervello innescando meccanismi di dipendenza, mediante il rilascio di dopamina . Un neurotrasmettitore responsabile – tra le altre cose – del modo in cui associamo determinati comportamenti alle relative ricompense. Se un’esperienza provoca più volte il rilascio di dopamina, il cervello memorizza il rapporto causa effetto, rilasciandola ogni volta che quell’esperienza viene ricordata. Cosa significa in concreto? Che nel momento in cui il cervello apprende che controllare il telefono comporta una ricompensa, inizierà a rilasciare dopamina ogni volta che pensiamo al dispositivo. Avete mai notato che quando vedete una persona che controlla il cellulare vi viene voglia di controllare il vostro?

La cosa interessante è che queste ricompense possono anche essere negative, perché spesso prendiamo il telefono anche per aiutarci a evitare qualcosa di sgradevole, come la noia o l’ansia. Il punto è che i telefoni e le app sono progettati senza un segnale che ci avverte quando ne abbiamo abbastanza: per questo è così facile esagerare, senza che ce ne rendiamo conto. Quante volte vi è capitato di controllare per un attimo il cellulare per poi rendervi conto che sono passate due ore?

Quello da cui diventiamo dipendenti è dunque un comportamento tale per cui perdiamo il controllo su un’attività, perseguendola compulsivamente, nonostante le conseguenze negative. Siete annoiati? Controllate la posta. Niente di nuovo? Passate alle app di social media. Non siete soddisfatti? Passate ad un altro, mettete un paio di like, seguite qualcuno, verificate che vi ricambino. Ricontrollate la posta, per sicurezza.

Cos’è che rende irresistibile uno smartphone?

La maggior parte delle persone si convince che ciò che ci spinge a controllare il telefono in modo ossessivo sia assicurarsi che c’è sempre qualcosa di buono che c aspetta. In realtà ciò che ci cattura è l’imprevedibilità. Ovvero il sapere che qualcosa può accadere, senza sapere se e quando accadrà.

Questa imprevedibilità è incorporata in ogni app, perché guardando il cellulare ci capita spesso di trovare qualcosa di gratificante. Il messaggio di una persona che ci interessa, una mail di complimenti. È per questo che quando controlliamo il telefono spinti dall’ansia ci calmiamo. E una volta che il cervello stabilisce questo collegamento, non importa se la ricompensa la riceviamo una volta su cinquanta, si ricorderà quell’unica volta e ci spingerà a controllare ancora più spesso il telefono.

La notifica è il segnale che qualcuno da qualche parte ci sta considerando. Che il nostro pubblico c’è. Ecco perché la qualità sui social ha perso valore. Perché l’unica cosa che conta è che noi ci crediamo e che gli altri ci seguano a molla. Il momento in cui riceviamo una notifica che ci lusinga coincide con il grado massimo di sospensione dell’incredulità. Online tendiamo a esprimerci in maniera esagerata, utilizziamo superlativi assoluti per fare complimenti ai nostri amici e i like degli sconosciuti valgono il doppio perché sono «disinteressati».

Sia gli utenti estremamente razionali sia quelli irrazionali sono accomunati dal desiderio umano di piacere. Entrambi faranno di tutto per raggiungere quello scopo e per non deludere le (proprie) aspettative.
Mark Zuckerberg si sbaglia riguardo alla ferma volontà di non introdurre il tasto «non mi piace», quello che non esiste per mantenere l’illusione che ci piaccia tutto e siamo tutti amici. Perché la cosa peggiore che possa succedere a un utente non è quella di ricevere una notifica in negativo. La cosa peggiore è sentirsi ignorati.

Quando ci esponiamo a un pubblico che non si esprime, non sappiamo cosa pensa di noi, viviamo nel dubbio. Ma quando iniziano ad arrivare i «mi piace» crediamo di sapere quello che sta succedendo: ci apprezzano. È qui che nasce il più grande strumento di fraintendimento dei nostri tempi. Un like può significare anche «facciamo pace» o «ti controllo», se a metterlo è rispettivamente uno con cui hai litigato o uno spasimante geloso. Online il tono sfugge e ci vorrebbe un social con i sottotitoli per spiegarci ogni volta che non ci sentiamo compresi.

Per questo motivo ho cominciato a cambiare le mie abitudini, a partire dall’immagine del blocco schermo sullo smartphone. Così ogni volta che lo accendo compare un messaggio che mi invita a concentrarmi su quello che mi sta attorno e su chi mi sta di fronte. Ma soprattutto sto ricominciando a riappropriarmi delle abilità che avevo comodamente delegato al mio fedele compagno di viaggio: memorizzare il percorso per andare da un posto all’altro, i numeri di telefono delle persone che mi stanno vicino. Così, la prossima volta che perderò il telefono, almeno saprò chi chiamare.

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