Ci sono artisti che costruiscono monumenti destinati a durare, e altri che preferiscono vederli tremare al primo soffio d’aria. Daniel Gonzàlez appartiene a questa seconda stirpe: quella di chi crede che l’arte, come la vita, sia più vera quando accade e si dissolve, quando si lascia attraversare dal tempo invece di volerlo fermare.
Per «Contemporary Locus 17», a cura di Paola Tognon, fino al 30 novembre, proprio dove la pietra custodisce la memoria e il vento scende dalle Prealpi, trova casa la sua installazione site specific. L’artista di origini argentine ha trasformato la facciata del Cimitero Monumentale di Bergamo in un’architettura effimera di luce e riflessi: «Golden Gate», un portale dorato cucito con sottili frange di mylar, che vibra al passaggio del vento e dialoga con il cielo. L’opera è sospesa dai capitelli alle gradinate, negli spazi tra le colonne che delimitano i dieci grandi porticati laterali al famedio centrale del Cimitero.
Obiettivo dell’artista è catturare e rifrangere la luminosità (diurna e notturna), generando effetti cangianti che dialogano con la monumentalità del luogo e invitano a una riflessione sulla spiritualità e sulla memoria. Ogni variazione di luce diventa così un invito a contemplare, ricordare e condividere, ridefinendo la percezione del luogo e celebrando il passaggio tra visibile e invisibile. Ci siamo fatti raccontare proprio da Daniel González il suo progetto.
CDM: Daniel, pur non avendo mai esposto opere nella nostra città, il suo legame con Bergamo nasce da lontano. Cosa l’ha portata, oggi, a dialogare con il nostro contesto urbano attraverso il progetto «Contemporary Locus 17»?
DG: Conosco Paola Tognon da molti anni, ci siamo sempre seguiti con rispetto e curiosità. Lei ha visto diversi miei lavori: a New York, a Palermo, a Milano, ma anche «Mi casa tu casa», quello sulle favelas ad Haiti, allestito per la Triennale a Milano e poi censurato perché non corrispondente all’immagine voluta dal Paese. C’era anche a Genova, in via del Campo, quando ho allestito alcune tende danzanti che, come un sipario, introducevano il pubblico in uno spazio di sospensione temporanea, al centro di un quartiere ancora «difficile» della città. Il mio intento, in fondo, è sempre quello di cambiare l’energia dei luoghi.
Anni fa, invece, sono stato invitato all’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo per una lettura sulle mie architetture effimere con Claudio Musso; in parallelo, Giacinto di Pietrantonio, precedente direttore della GAMeC, curava a Verona una mia mostra. Ho sempre sentito parlare di Bergamo: per me, ora, ritrovare questa città in una forma così intensa è una grande gioia ed emozione.
CDM: Quando le è stato proposto di intervenire in un luogo come il Cimitero Monumentale, cosa l’ha colpita di più?
DG: Quando Paola mi ha proposto di pensare a un’opera per il Monumentale, ero perplesso. Lavoro spesso su contesti antichi e storici, ma questo mi sembrava «troppo vicino» nel tempo. Poi ho riflettuto sul fatto che il cimitero è un luogo di celebrazione: come si celebra la vita, si celebra la morte; questo mi ha convinto. Già dopo il primo sopralluogo ho sentito una grande calma, ho percepito una monumentalità che chiedeva rispetto. Il Cimitero di Bergamo è un luogo maestoso, ma al tempo stesso permeabile, attraversato da una luce particolare. Mi sono chiesto come potessi dialogare con quella grandezza senza contrastarla, ma restituendole per qualche tempo un’energia diversa. La mia opera non vuole competere con l’architettura, ma respirare con essa: per questo ho voluto creare un’installazione che fosse una soglia leggera, sempre in movimento, un portale dove la memoria incontra la luce.
CDM: L’opera, infatti, abiterà proprio il confine tra due città: quella dei vivi e quella dei morti. Come si traduce questa idea nella sua ricerca?
DG: Ho voluto creare un luogo di passaggio, una soglia. Non è un’opera sulla fine, ma sulla transizione, sul passaggio. Possiamo chiamarla vita, possiamo chiamarla morte: è un passaggio veloce, continuo. Il senso dell’installazione è oltre le religioni e le classi sociali, è un’esperienza di luce e di percezione. In fondo, tutte le culture e le fedi cercano un luogo di luce: io provo a costruirlo in forma temporanea.
CDM: Da qui il titolo dell’installazione: «Golden Gate», portale d’oro. Che significato ha questo colore in questo contesto?
DG: Ho scelto l’oro perché è il colore della sacralità: rappresenta la luce che unisce materia e spirito. La struttura dell’intera costruzione, invece, è in acciaio, il colore della vita, del lavoro, del fare. Mi piace pensare che questa doppia natura rappresenti anche il dialogo tra il mondo terreno e quello spirituale.
CDM: Nel suo lavoro, poi, anche il vento ha un ruolo attivo, quasi spirituale…
DG: Io preparo lo spazio, ma poi è il vento a definirne il ritmo, leggero o forte che sia. Mi piace pensare che un elemento che appartiene alla natura sia parte fondante dell’opera. Quando il vento entra in contatto con le frange dorate, la luce cambia, il suono si modifica: è come se l’opera respirasse. Non è mai uguale a sé stessa, vive con chi la attraversa.
CDM: Il materiale che utilizza, il mylar dorato, è lo stesso delle coperte isotermiche d’emergenza. C’è un pensiero di cura dentro questa scelta?
DG: Sì, il mylar è un materiale di cura, ma anche di festa. Si usa nei soccorsi per trattenere il calore dei corpi, per proteggere. È una pelle luminosa, fragile e resistente. Mi piace l’idea della cura come viaggio di luce: una premura che non è solo fisica, ma spirituale. Riflette tutto ciò che incontra, crea atti di magia.
CDM: Lei parla spesso del «rito della celebrazione» come nucleo del suo lavoro. In che modo celebrare può diventare un atto artistico?
DG: Per me l’arte non è solo contemplazione, ma partecipazione, condivisione, movimento. Nei miei lavori c’è sempre un rito di celebrazione. È un momento di liberazione, di riconoscimento reciproco. Le feste sono l’unico spazio in cui le classi sociali si mescolano e si liberano, dove tutti si incontrano e sono uguali, sullo stesso piano. Per me la celebrazione è un gesto universale, non solo religioso, ma più in generale umano. È un modo per dire: siamo qui, insieme, a riconoscere la vita. Anche nel Cimitero Monumentale non parlo di morte, ma di transizione. È un passaggio da uno stato all’altro. Tutte le culture antiche danzavano per attraversare i passaggi: la mia opera è un invito a farlo con la luce.
CDM: Nei suoi lavori ha spesso trasformato spazi urbani in scenografie della vita, da Rotterdam a New York, da Palermo a Città del Messico. In che modo l’esperienza bergamasca si inserisce in questo percorso?
DG: Ogni volta che intervengo in un luogo, cerco di cambiare la sua energia. Le mie «architetture effimere» non vogliono lasciare un segno materiale, ma un’esperienza condivisa. Qui a Bergamo il lavoro si lega anche al vento, alla luce, al ritmo della città. È un’opera grande, ma non soffre di «manie di gigantismo», non fanno parte della mia ricerca. È grande, ma in ogni momento si rivela è diversa. A volte sembra svuotarsi, a volte riempirsi: è un portale di celebrazione, un invito a entrare, a incontrarsi, a lasciarsi attraversare. Per me l’arte è sempre una festa, anche quando è silenziosa.
CDM: La sua opera è effimera, ma capace di lasciare una traccia profonda. Come vive questa temporaneità?
DG: Le mie installazioni sono delle azioni inaspettate per le architetture che le ospitano: le modificano per qualche tempo, le fanno funzionare in modo diverso. È un’alterazione semantica del luogo, poi tutto torna come prima, ma qualcosa rimane. È la magia dell’arte: il luogo ha vissuto un’altra energia e la memoria di quell’esperienza resta, qualunque ne sia stata l’interpretazione.
CDM: Lei ha condiviso il detto che afferma: «Una persona non è morta se vive nella tua memoria». È da qui che nasce la dimensione spirituale del progetto?
DG: Il mio rapporto con la morte è complesso, ma credo che la memoria sia una forma di presenza: quando ricordiamo, celebriamo. L’opera che porto a Bergamo vuole essere anche questo: un gesto di luce che ci ricorda che siamo vivi, che il passaggio non è una fine, ma una continuità. È un invito a sostare, a riconoscere ciò che resta, a celebrare, anche nel silenzio.
CDM: E cosa vorrebbe che restasse, dopo il 30 novembre, nello sguardo di chi l’ha attraversata?
DG: Pace, serenità, accompagnate anche dal suono del vento. Vorrei aver celebrato il passaggio senza il trauma della perdita, ma nel pieno rispetto della sensibilità che le perdite stesse portano. Dedico quest’opera a mia madre, che ho perduto, e ad una amica e collezionista tedesca, Kristin Feireiss, una donna che creava connessioni tra le persone. Lei era come io concepisco le mie strutture: ponti di luce. Ecco, io vorrei che «Golden Gate fosse» soprattutto questo: un ponte.
I dettagli dell’opera:
Daniel González, «Golden Gate», 2025
1.280 metri lineari di mylar, tagliato, cucito e intrecciato a mano, nastro intelato, nastro adesivo, rete di ancoraggio, fascette serracavo.
Dimensioni: m. 25 x 7.5 x 0.30 /10 portali: 2.5 x 7.5 x 0.30 metri.
Progetto site specific per «Contemporary Locus 17» | La Città nella Città | Cimitero Monumentale di Bergamo
