Ci sono storie che sembrano non avere fine. E se sono brutte storie, questa infinitezza fa rima con irrisolutezza, oltre che con dolore. Storie che non si chiudono mai del tutto, che restano in sospeso come una ferita mal cicatrizzata e che tornano a pulsare ogni volta che qualcuno prova a raccontarle di nuovo. Quella del «mostro di Firenze» è una di queste. Otto duplici omicidi, diciassette anni di indagini, infinite piste, ipotesi, leggende. Uno dei grandi nodi – oltre che misteri, come si ripete da sempre – della cronaca italiana degli ultimi cinquant’anni, che però è qualcosa di più: un trauma culturale, uno specchio del Paese in un momento storico cruciale, quando la modernità bussava alla porta e il vecchio ordine sociale, patriarcale e contadino, cominciava a sgretolarsi senza essere ancora sostituito da nulla.
Dentro quella crepa – tra libertà sessuale e paura del corpo, tra progresso e superstizione – si è infilato un male che non era solo individuale, ma collettivo. Ed è proprio lì che «Il mostro», la nuova serie di Stefano Sollima e Leonardo Fasoli per Netflix, trova la sua forza: non nel ricostruire l’enigma, ma nel rimettere in scena le ombre di un’Italia che, pur cambiando volto, continua a somigliare a se stessa.
Dimenticatevi Pacciani (almeno per ora). I primi quattro episodi di questa prima stagione – ne seguirà almeno una seconda – si concentrano sulla cosiddetta «pista sarda», la più controversa e, forse, la più rimossa. È quella che lega il «Mostro» alle vite delle prime vittime: Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, uccisi il 21 agosto 1968 mentre si erano appartati nei pressi di Lastra a Signa, alle porte di Firenze. Barbara, originaria della provincia di Cagliari, quella notte era in macchina con il figlio di sei anni, Natalino Mele; Antonio era il suo amante. Il marito della donna, Stefano Mele, manovale, anche lui sardo, divenne subito il principale sospettato: nel 1970 fu condannato a quattordici anni di carcere, con l’attenuante della semi-infermità mentale. Dodici anni più tardi, però, la storia si riapre.
È il 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono ritrovati senza vita Antonella Migliorini e Paolo Mainardi, quarta coppia in ordine di tempo a cadere sotto i colpi del Mostro. È allora che il sostituto procuratore Silvia Della Monica, figura centrale della serie e una delle prime voci femminili della magistratura italiana, intuisce il legame con il delitto del 1968. Da quel momento, la vicenda cambia tono e prospettiva. Ed è da qui che parte la serie, dalle indagini balistiche sui proiettili che permisero di collegare gli omicidi attraverso l’arma del delitto: una Beretta calibro 22 caricata con munizioni Winchester marchiate con la lettera «H» sul fondello del bossolo. La vera e propria firma del «Mostro». L’ipotesi è la più semplice e razionale: se tutte le vittime sono state uccise con la stessa arma, anche la mano che ha premuto il grilletto deve essere la stessa. E se il primo duplice omicidio avvenne dentro la comunità sarda trapiantata nella provincia fiorentina, anche gli altri – suggerisce l’indagine – potrebbero avere la stessa radice. E così, ciascuno dei quattro episodi si trasforma in una pista investigativa, con il nome di ogni sospettato a fare da titolo, a partire proprio da Stefano Mele.
Eppure, anche se potrà sembrare strano, ciò che «Il Mostro» fa non è raccontare le indagini e cercare un colpevole (o almeno non solo), ma qualcosa di molto più complesso come esplorare i fattori culturali e sociali che stanno al di là della semplice detection. E proprio questo sembra averne determinato il grande successo che sta riscuotendo, rendendola la serie più vista in Italia in queste settimane e facendola entrare nella Top 10 globale di Netflix in decine di Paesi. Sin dall’incipit, un’immagine e una battuta definiscono il perimetro in cui Sollima e Fasoli si muovono. Una delle prime inquadrature mostra una donna in abito da sposa che fugge tra i campi inseguita da alcuni uomini: è Barbara Locci, che scappa come una preda dal matrimonio combinato con Stefano Mele e dalla sua famiglia. L’orrore non è ancora cominciato, eppure è già tutto lì: il corpo femminile come campo di battaglia, la violenza come linguaggio universale. Poco prima, il pubblico ministero Della Monica, davanti al cadavere di Antonella Migliorini, inorridita e sgomenta, aveva esclamato: «Questi sono omicidi contro le donne. È una violenza specifica contro le donne». Non sappiamo se il «Mostro» fosse spinto da un odio particolare verso le donne, e certamente l’efferatezza dei delitti non ha risparmiato gli uomini (per uno scherzo del destino, i morti maschi superano le vittime femmine). Ma al di là del fatto che in quasi tutti i duplici omicidi l’assassino si sia accanito in modo particolare sui corpi delle ragazze, praticando incisioni e asportazioni, quello che emerge dal discorso degli autori è soprattutto il contesto culturale in cui questi crimini sono inseriti.
Un contesto, quello dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, in cui la misoginia, ci dice la serie, non è un accidente culturale ma la struttura portante. Nel suo percorso, «Il Mostro» diventa infatti una sorta di allegoria del maschile italiano. Non solo quello criminale, ma quello quotidiano, domestico, ordinario. Quello che affonda le radici nelle sovrastrutture della memoria contadina, dove il possesso comprende anche il femminile (come soggetto a 360 gradi) e l’autorità maschile si tramanda come un’eredità naturale, indiscussa. In questo senso, la serie non parla soltanto di un assassino, ma di un intero sistema di sguardi, di poteri e di paure. Racconta il modo in cui la violenza si infiltra nei gesti minimi – nelle relazioni, nei silenzi, nelle giustificazioni sociali – fino a diventare abitudine. E dove il motore di questa violenza, che a fianco di quella eclatante, efferata e sconvolgente dei delitti, si dipana in infinite direzioni, è soprattutto uno: il sesso.
Uomini che “odiano” le donne, sì, ma soprattutto uomini che le guardano, le usano, le abusano. Per i quali il corpo femminile è insieme oggetto di desiderio e strumento di perversione. Guardoni, mitomani sessuali, pervertiti, stupratori, assassini deviati: una piramide – o più probabilmente un circolo vizioso – di figure maschili che rappresentano le diverse forme della stessa patologia culturale. Alla base c’è sempre una perversione, un desiderio negato, una frustrazione o un’impotenza che, intrecciandosi con una morale castigata e bigotta, trasforma il desiderio in ossessione, la repressione in violenza. Dietro la pistola, dietro l’atto estremo, c’è un’intera educazione sentimentale distorta, in cui il sesso diventa insieme tabù e potere, repressione e dominio. E così il «mostro di Firenze» non è solo un individuo, ma il riflesso collettivo di un maschile malato, antico, sedimentato. Una figura che la serie sceglie di raccontare con lucidità, come la parte oscura e inconfessata di un intero Paese.
E Sollima filma tutto questo con la consueta precisione e forza evocativa – la notte buia tagliata dai fari delle auto, i campi lunghi e le riprese dall’alto che “rallentano” e tolgono pathos alla violenza, la geometria quasi antropologica dei paesaggi rurali – ma qui la sua regia ha qualcosa di diverso. È meno muscolare, più dolente del solito, con ogni inquadratura sembra chiedersi non chi sia l’assassino, ma chi ha permesso che tutto questo accadesse. L’effetto è quasi straniante, ci ritroviamo a guardare una serie true crime che non cerca un colpevole, ma una responsabilità collettiva e in cui il «Mostro» diventa un prodotto sociale. In cui il male non viene mitizzato o, peggio, estetizzato, ma quasi svuotato di senso. Diversamente da «Romanzo criminale», «Gomorra» o «Suburra» – le serie che hanno consacrato il regista romano – non c’è alcuna glorificazione o fascinazione per il crimine, ma lo sgomento e la consapevolezza di trovarsi davanti a un male troppo grande per essere compreso del tutto.
La chiave di lettura più efficace è forse proprio questa: «Il mostro» non vuole essere una serie definitiva sugli omicidi di Firenze, ma interrogare il modo in cui raccontiamo – e guardiamo – il male. Non chiede di capire, ma di riconoscere. E il disagio maggiore nasce da lì: nel rendersi conto che quel male non è lontano e ci somiglia. Un’inquietudine sottile, morale, politica. Che in qualche modo ci costringe, ancora, a raccontare questa storia.
