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Meritocrazia leva aziendale per scoprire talenti

Appare un obiettivo condivisibile da tutti. La meritocrazia è però un processo delicatissimo da gestire, soprattutto quando viene associata all’idea di “competizione”. Per fare ordine tra idee e strumenti utili alle aziende, nell’articolo consideriamo diversi approcci alla meritocrazia delle persone e delle idee, correlando il tema al compito più ampio del talent management.

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Forse non tutti sanno che la parola meritocrazia fu coniata nel 1958 dal sociologo Michael Young nel testo satirico The Rise of the Meritocracy, che descriveva una società futura in cui la posizione sociale degli individui era determinata dal loro quoziente intellettivo.
L’aspetto distopico di quella società derivava dalla parzialità del criterio adottato per stabilire la classifica dei cittadini. La parola si è poi diffusa senza le connotazioni negative iniziali, per indicare il principio secondo cui le responsabilità e i riconoscimenti dovrebbero essere assegnati in base ai meriti, all’operosità e alla capacità d’iniziativa dei singoli, anziché in base a “vantaggi di posizione” indipendenti dal merito (come anzianità, ricchezza ereditaria ecc.).

Anche se in questa prospettiva sembra un obiettivo condivisibile da tutti, la meritocrazia è un processo delicatissimo da gestire, soprattutto quando viene associata all’idea di competizione.
Per fare ordine tra idee e strumenti utili alle aziende, nell’articolo consideriamo diversi approcci alla meritocrazia delle persone e delle idee, mettendo in relazione il tema al compito più ampio del talent management.

Sommario

Le insidie della meritocrazia competitiva
Meritocrazia da spogliatoio
Esiste una “sana” competizione?
Meritocrazia apparente
Il modello meritocratico GORE, tra task forces e gerarchie sfumate
La meritocrazia delle idee secondo Ray Dalio
Dalla meritocrazia al talent management
Come tenere conto del merito nelle soft skills

Le insidie della meritocrazia competitiva

In un saggio sulle culture d’impresa Edgar Schein racconta un episodio accaduto in Atari, negli anni in cui la società eccelleva nel progettare videogiochi. La storia inizia con la nomina di un nuovo Ceo formatosi nel settore del marketing, convinto di poter aumentare la produttività attraverso incentivi individuali e premi. Trovandosi a contatto con ingegneri informatici apparentemente disorganizzati o, nel migliore dei casi, organizzati in modo generico, il dirigente ritenne opportuno cambiare le cose introducendo, tra l’altro, un sistema competitivo che prevedeva la nomina periodica di un “ingegnere del mese”. L’iniziativa cambiò il clima e, nel giro di poco tempo, il personale perse motivazioni e risultò più demoralizzato, al punto che alcuni tra i programmatori più capaci decisero di lasciare l’azienda (Culture d’impresa, Milano 2000, pp. 14-15).

In poche parole, l’iniziativa di distribuire incentivi facendo leva sulla competizione interna ebbe un esito contrario all’intenzione.

Cos’era successo?
Seguendo la ricostruzione fatta da Schein, le iniziative del nuovo Ceo ( Chief executive officer) avevano interferito con gli equilibri della collaborazione non strutturata degli ingegneri, che aveva un alto potenziale creativo: nella programmazione questi arrivavano sempre a risultati “collettivi” e, data l’alta intensità del confronto e dell’ispirazione reciproca, nessuno di loro sarebbe stato capace di dire quanto e dove aveva contribuito all’esito finale.

Applichiamo il concetto di intelligenza collettiva discusso in questo articolo.

I risultati raggiunti erano attribuibili all’intelligenza collettiva prima ancora che alle singole intelligenze individuali: perciò la pretesa di distinguere, misurare e mettere in sequenza il peso dei contributi individuali generò ansia, stress e difficoltà relazionali mai sperimentate prima.

Schein utilizza questo esempio anche per mettere in guardia dall’illusione di poter tradurre tutto ciò che conta in un’impresa in concetti processabili e in processi calcolabili. Nel caso di Atari, più specificamente, non si era tenuto conto di come l’assegnazione di premi o segni di status potesse incidere negativamente su altre dinamiche di integrazione interna, a partire dallo spirito di squadra.

Gli esempi di questo tipo non mancano. Non sono rari, infatti, i casi di capi-squadra, capi-cella (nel cellular manufacturing), middle manager ecc. che vivono con disagio il momento in cui devono attribuire premi individuali alle persone con cui lavorano, soprattutto quando metodi e criteri da applicare appaiono calati dall’alto e lontani dall’andamento effettivo del lavoro, oppure quando si presagisce che le distinzioni di merito tra i singoli potrebbero generare, in alcuni, la sensazione di non essere riconosciuti abbastanza; sensazione da cui possono derivare astio, invidia, rancori inespressi e tensioni di vario genere.

Frequenti i casi di disagio di capi-squadra, capi-cella, manager che devono attribuire premi individuali alle persone con cui lavorano, soprattutto quando metodi e criteri da applicare appaiono calati dall’alto

La questione è delicatissima, perché riguarda i circoli viziosi e gli effetti indesiderati che si manifestano quando si vogliono raggiungere due obiettivi che appaiono in linea di massima auspicabili:
- da un lato, applicare una meritocrazia basata sulla valutazione delle performance individuali;
- dall’altro lato, promuovere il lavoro di squadra e quindi il conseguimento di obiettivi complessi, che non possono che risultare da un lavoro collettivo.

Proseguendo l’analisi ci chiederemo se i due obiettivi sono necessariamente antagonisti oppure se le difficoltà nel coniugarli dipendano dall’approccio che di volta in volta si sceglie di adottare.
Fare chiarezza sulla questione diventa tanto più urgente se si considera la centralità del lavoro di squadra nei contesti organizzativi dell’industria 4.0 (sul punto si veda, ad esempio, il corposo volume curato da Cipriani, Gramolati e Mari, Il lavoro 4.0. La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, 2018).

Meritocrazia da spogliatoio

Sia consentito un rapido cenno a un caso sportivo clamoroso, la cui evoluzione è ancora in corso mentre scriviamo: il caso Icardi nei primi mesi del 2019. Ovviamente il caso viene qui citato considerandone le dinamiche soltanto dal punto di vista della gestione aziendale e tenendo conto di ciò che è visibile attraverso le dichiarazioni pubbliche dei protagonisti.

Iniziamo dalla goccia che ha fatto traboccare un vaso di tensioni che andava colmandosi da tempo, alimentate tra l’altro dalla difficile contrattazione per l’adeguamento dello stipendio del giocatore al merito e ai livelli di altri top player dei campionati europei. A metà febbraio, dopo circa due mesi dall’insediamento di Giuseppe Marotta come nuovo amministratore delegato dell’Inter, il canale social Twitter ufficiale della squadra comunica la decisione di consegnare la fascia di capitano al portiere Handanovic togliendola a Mauro Icardi, capocannoniere del precedente campionato.

Non sappiamo quali passaggi abbiano portato a questa decisione, che evidentemente ha comportato una riconfigurazione improvvisa e pubblica della scala meritocratica della squadra, dal momento che la fascia di capitano è emblema di merito. Nella decisione di cambiarne il portatore sono chiaramente entrati in gioco il rapporto tra il singolo e la squadra e il rapporto tra funzioni e ruoli, dalla dirigenza allo spogliatoio (proprietà, Ad, allenatore, giocatori).

Consideriamo un altro aspetto della vicenda. L’agente di Icardi, nel mese cruciale di febbraio, ha rilasciato dichiarazioni come le seguenti:

«Vorrei che Mauro fosse più tutelato dalla squadra, perché a volte escono delle cattiverie da dentro»;
«Se mi date da scegliere tra il rinnovo e l’arrivo di uno che gli mette cinque palloni buoni, forse preferisco che Mauro abbia un aiuto in più».

La seconda dichiarazione è al tempo stesso esplicita e allusiva.
Sottintende forse che nella squadra non ci sono abbastanza giocatori in grado di servire buoni palloni, come si dovrebbe? È per questo motivo che la media realizzativa di Icardi si è abbassata nei mesi precedenti? Forse le buone prestazioni del singolo, quando ci sono state, sono avvenute non grazie ai compagni, ma nonostante la loro limitata capacità?

Tra l’esplicito e l’implicito di tali dichiarazioni e di quelle fatte da altri protagonisti si apre lo spazio nebuloso delle allusioni, dei rancori e del mancato riconoscimento.

Chi non ha riconosciuto chi? Chi ha iniziato? Sono domande classiche quando il circolo vizioso si è ormai innescato. Le variabili sul tavolo, a questo punto, si moltiplicano: la notizia sulla pretesa di restituzione della fascia (mossa che comporterebbe un’azione pesante e avvilente sul nuovo capitano); la divisione della tifoseria tra sostenitori della linea societaria e sostenitori delle ragioni del calciatore; le dichiarazioni non sempre sintonizzate tra amministratore delegato e allenatore e così via.

Tutto ciò mostra, in grandissima scala, come le situazioni possano avvitarsi su se stesse, quando la questione dei meriti individuali viene trattata calcando sulla contrapposizione tra il singolo e la squadra di cui pure il singolo fa parte.

A quasi due mesi dall’esplosione della vicenda, quando il picco dello scontro sembra superato o almeno sedato per convenienza di tutti, l’allenatore dichiara che «è sicuramente una storia da cui usciamo tutti sconfitti, o nessuno vincitore» e che Icardi ora sa che «non dipende tutto da lui».

Può colpire il fatto che si corra il rischio di perdere di vista la centralità della dipendenza di tutti da tutti anche in un campo dove tale centralità dovrebbe essere scontata.

A fare perdere di vista questa centralità, però, agisce un’altra spinta altrettanto potente: la spinta a vivere in termini competitivi la questione della meritocrazia (singoli o gruppi contro altri singoli o gruppi).

C’è una curiosa coincidenza in questa storia.
Nel mese di gennaio 2019 al Congresso Mondiale della Cyber Scienza è stata premiata una ricerca di Massimo Marchiori e Marco de Vecchi, dedicata alla possibilità di interpretare una squadra di calcio come una sorta di cervello (Team Brain), cioè come un sistema di connessioni in cui il singolo giocatore appare secondario rispetto alla struttura dinamica della rete in cui si inserisce (il singolo campione è un nodo che può influire più di altri sulla dinamica della rete, ma si esprime comunque in relazione a un cervello collettivo).
Il “fuoriclasse” può fare la differenza, ma è comunque la rete in cui si inserisce che gli permette di fare quello che fa (si pensi, per chi è appassionato di calcio, alla dibattuta questione delle differenti prestazioni di Messi tra Barcellona e Argentina).

Esiste una “sana” competizione?

Le insidie considerate nel primo paragrafo riguardano l’interpretazione competitiva della meritocrazia, più che la meritocrazia in sé. Ma la competizione è insidiosa in sé, oppure esiste una “sana” competizione da incoraggiare?

Per iniziare ad affrontare il problema, consideriamo una posizione netta a favore della meritocrazia competitiva, come quella della giornalista Barbara Serra in un intervento TEDxTalks intitolato «Il lato spietato, ma necessario, della meritocrazia».
La relatrice fa riferimento al modello di valutazione anglosassone e, in particolare, al sistema che prevede la valutazione comparativa dei singoli all’interno del gruppo a cui appartengono. Tale approccio porta a distribuire i componenti di una classe lungo una curva gaussiana in cui spiccano, agli estremi, il 10% degli eccellenti e il 10% dei peggiori.

Consideriamo più da vicino uno degli esempi proposti dalla giornalista: se in una classe di 30 alunni uno studente X esegue bene i suoi compiti al 99% (oppure, se durante l’anno raggiunge il 99% gli obiettivi previsti), ma in classe ci sono tre studenti che fanno bene al 100%, allora lo studente X non rientrerà nel 10% degli “eccellenti” e la tal cosa potrebbe restare impressa nel suo curriculum.

Questo, nell’analisi di Barbara Serra, è il lato spietato ma necessario della meritocrazia, che dovrebbe spingere a migliorarsi attraverso la competizione e l’ambizione. La giornalista sottolinea che adottando questa logica la competizione può essere “spiegata” e “inculcata” nei bambini fin dalla scuola primaria, a partire dai 9 anni. Per chi volesse vedere l’intera presentazione, che tocca in modo semplicistico i possibili nessi tra meritocrazia e competizione, eccola qui:

Affrontando il nesso tra meritocrazia e competizione dal punto di vista delle soft skills, è il caso di porsi domande come le seguenti: che conseguenze può avere l’impostazione descritta da Barbara Serra quando diventano importanti il gioco di squadra e i risultati conseguiti non dal singolo, ma dalla squadra? Si potrebbe pensare di mettere diverse squadre, unità o celle di una stessa azienda le une contro le altre, ma a quale prezzo per chi si impegna e risulta comunque “perdente”? e a quale prezzo per il senso della comune appartenenza alla stessa azienda?

Analisi più attente alla complessità delle interazioni umane invitano ad essere molto cauti nel legare meritocrazia e competizione, in quanto la cattiva gestione della competizione alimenta sentimenti e comportamenti deleteri per la buona convivenza organizzativa, come invidia, arrivismo, gelosia, opportunismo, indifferenza e così via (per il concetto di convivenza organizzativa si veda l’articolo di Avallone e Farnese nel libro Psicologia del lavoro curato da Argentero, Cortese e Piccardo, Milano 2008).
Risulta inoltre che la volontà di primeggiare in un contesto fortemente competitivo può spingere a nascondere i propri errori, a diffidare degli altri, a cercare capri espiatori, a non condividere informazioni e conoscenze, a vivere con eccessiva ansia la delega; oppure può generare frustrazione e condurre al disengagement.

Chi mette sulla bilancia i “pro” e i “contro” della competizione sottolinea ovviamente il fatto che essa può spingere a migliorarsi, sostiene gli sforzi orientati all’obiettivo e motiva alla ricerca di risultati eccellenti, ispirando l’innovazione.
D’altro canto, non si nega che la competizione possa generare ansia e indurre a volte comportamenti scorretti e opportunistici, in misura crescente con il crescere dell’enfasi sul divario tra vincenti e perdenti, o tra gli eccellenti e i peggiori.

Partendo dalla premessa che una minima dose di competizione è inevitabile nei contesti organizzativi, in un articolo intitolato The Pros and Cons of Competition Among Employees (Harvard Business Review, marzo 2017) si sottolinea che il modo in cui la competizione viene proposta può fare la differenza nei vissuti e nei comportamenti dei dipendenti. Tra i casi estremi qui citati c’è quello di una banca che prevedeva incontri settimanali denominati “Cash or Cabbage Day”, in cui i migliori nel raggiungere i target aziendali venivano pubblicamente premiati “in contanti”, mentre i peggiori venivano pubblicamente derisi con la consegna di un cavolo.

Ebbene sì, è potuto accadere anche questo. Si tratta di un caso estremo, ma segnala un rischio comune: il frame della competizione porta con sé la distinzione tra “vincenti” e “perdenti” e tale distinzione può avere effetti “tossici” sulle motivazioni degli individui e sulla qualità delle relazioni, a partire dal modo in cui i colleghi si guardano tra loro.

la distinzione tra vincenti e perdenti può suggerire che il «vincente» è «solo» e che deve tutto a se stesso, dal momento che viene premiato da solo.

La serietà di queste controindicazioni della competizione interna viene qui segnalata a partire da assunti sistemici e lasciando da parte i moralismi: non si tratta infatti di stabilire se un certo approccio alla competizione sia bello o brutto in generale, ma quali siano i suoi effetti se viene applicato a sistemi complessi di agenti umani, in cui è cruciale l’alta qualità delle interazioni tra le parti.

Meritocrazia apparente

Supponiamo di disporre di un buon criterio per giudicare i meriti individuali: non è detto che sia facile applicarlo in modo da ottenere valutazioni “oggettive”. D’altro canto, se manca la sensazione di oggettività, può affiorare in alcuni la sensazione di avere a che fare con un sistema meritocratico ingiusto e di facciata, con conseguenze negativa sull’engagement di chi si sente ingiustamente sfavorito.

Alcune ricerche recenti, ad esempio, hanno evidenziato l’esistenza di distorsioni sistematiche del giudizio (bias) nella valutazione dei meriti. Come si manifestano tali distorsioni?
Ad esempio così: sottoponendo ad alcuni esperimenti 445 persone con esperienza manageriale si è notato che, a parità di curriculum e caratteristiche dei candidati, c’è una tendenza a preferire gli uomini alle donne e coloro che hanno nomi che “suonano” occidentali (come Emily e Greg) a coloro che hanno nomi che richiamano altre appartenenze etniche (come Lakisha e Jamal). Tali preferenze “distorte” – in quanto variano al variare del genere o del nome e non del curriculum o dei profili del candidati – possono riguardare, ad esempio, l’assegnazione di bonus, premi, promozioni e compensi.

Forse anche per questa ragione si arriva alla situazione sinteticamente descritta dalla seguente infografica proposta al World Economic Forum nel Future of the Jobs Report. La domanda è: Dove sono posizionate le donne considerando i ruoli chiave nella guida delle aziende?

L’immagine qua sopra parla da sé.

Nigel Nicholson, professore di comportamento organizzativo alla London Business School, segnala un altro problema (The False Theory of Meritocracy, Harvard Business Review 2010): anche quando si dispone di scale meritocratiche molto complesse, le valutazioni vengono spesso fatte in modo sommario.

A volte è questione di tempo, a volte di distorsioni del giudizio: si valuta meglio chi sta più simpatico, chi ha meriti più recenti o eclatanti (euristica della disponibilità) e così via. Inoltre le abilità dei singoli dipendono sempre in parte dalle circostanze e dai collaboratori, cambiano nel tempo e non sono mai l’esito di processi puramente individuali.

Dal punto di vista di Nicholson non si tratta di mettere in discussione l’esistenza di gerarchie e l’importanza di ragionare sui meriti, ma di non lasciarsi infettare da concezioni inadeguate sulle qualità umane e dall’aspirazione a ridurre le persone a singoli numeri o lettere su scale di merito. Una buona teoria della meritocrazia, perciò, «dovrebbe riconoscere che tutti abbiamo motivazioni e talenti multipli e che tutti possiamo imparare e migliorarci nella maggior parte dei ruoli, anche se il modo (quantità, velocità dell’apprendimento) varia da persona a persona».

Che fare, allora, per tenere conto di questi princìpi? Nicholson segnala alcune aziende che hanno implementato con successo culture basate sul team e su gerarchie “sfumate”, “sfuocate” (in inglese fuzzy). Tra queste aziende spiccano Google, Gore, Opticon e Chapparral Steel.

Il modello meritocratico GORE, tra task forces e gerarchie sfumate

Abbiamo accennato al termine gerarchia fuzzy, utilizzato nell’articolo di Nicholson.
Cosa può significare? In matematica e filosofia la locuzione logica fuzzy indica una logica in cui sono previsti valori intermedi tra il vero e il falso.
Ma com’è possibile che in una struttura gerarchica le singole posizioni possano assumere un valore intermedio tra il “tutto” (l’avere una posizione) e il “niente” (il non avere quella posizione)?

Un breve approfondimento sul caso di GORE, una delle 200 maggiori aziende private statunitensi, aiuta a cogliere meglio il significato dell’espressione. L’azienda – 9.500 dipendenti in più di 25 Paesi e un fatturato annuo di oltre 3 miliardi di dollari – crea prodotti per impianti medici e laminati tessili, nonché tecnologie di cablaggio, filtraggio, sigillatura, membrane, sfiato e fibre per diversi settori industriali.

Nella pagina del sito dedicata alla cultura d’impresa si fa riferimento a una struttura di comunicazione reticolare (lattice comunications structure), in cui i dipendenti sono invitati a sentirsi creatori e guide del business: obiettivo primario sono la collaborazione e la costruzione di connessioni senza i vincoli delle tradizionali catene di comando.

Tra i singoli dipendenti non c’è competizione, ma il proposito di “darsi la libertà di incoraggiare e supportare reciprocamente la nostra crescita e il nostro sviluppo”. La meritocrazia resta, ma è per così dire diffusa, perché ciò a cui si guarda prioritariamente è il fatto che tutti, nella loro diversità, meritano di crescere e svilupparsi aiutati dagli altri (e non potrebbero farlo altrimenti). È in questo scenario che viene formulata la seguente promessa meritocratica: “qui le persone altamente motivate prosperano”.

Tutto ciò diventa più chiaro ed esplicito considerando cinque punti: la logica del commitment (cioè dell’assumersi impegni), il riferimento alla Teoria Y, il modello della task force, la comunicazione “reticolare” (in inglese “lattice”) e il principio del compenso basato sul contributo. Vediamoli meglio, uno ad uno:

  • Logica del commitment autonomamente preso: I dipendenti, come “associati” dell’azienda, si danno autonomamente degli impegni, con l’aiuto di leader e sponsor (che agiscono come “coach”) e fanno del loro meglio per portarli a termine. Gli impegni devono essere coerenti con le esigenze aziendali e al tempo stesso favorire la crescita personale di chi li assume.
  • Teoria Y: Il fondatore, Bill Gore, è stato fortemente influenzato dal saggio di Douglas McGregor intitolato The Human Side of Enterprise (1960). L’idea di fondo è che gli individui possono rendere al meglio se viene data loro la possibilità di coltivare abilità e interessi personali. Lasciare “libertà” nel prendersi degli impegni è in linea con questo principio.
  • Modello della Task Force: Lavorando per DuPont, il fondatore Bill Gore sperimentò l’importanza delle squadre di piccole dimensioni (task forces) per affrontare problemi complessi in modo più veloce ed efficiente di quanto possa fare un singolo individuo. Notò inoltre che nel lavoro per piccole squadre emergevano capacità dei singoli che restavano nascoste nell’ambiente di lavoro tradizionale. Da qui l’idea di fondare un’intera organizzazione in cui il lavoro per piccole squadre fosse centrale.
  • Comunicazione reticolare: Ogni dipendente (associato) è libero di comunicare con ogni altro all’interno dell’organizzazione e di costruirsi una rete (ad esempio per intercettare una competenza, per fare brainstorming, per condividere feedback) pur tenendo ferma la chiarezza attorno alle differenze tra ruoli, responsabilità e priorità. Sul sito italiano si legge questa descrizione: “Le reti dei nostri associati sono dei gruppi autogestiti, nati per promuovere attività di networking, sviluppo, formazione e iniziative nel sociale. Le reti attualmente presenti nelle sedi Gore in tutto il mondo comprendono gruppi di supporto dedicati a persone di origine afroamericana, asiatica, latina e ispanica, LGBT, nativi americani, associati con disabilità, veterani e donne, gruppi imperniati sul dialogo tra generazioni, gruppi di varie nazionalità tra gli associati europei e gruppi finalizzati a trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata”.
  • Compenso basato sul contributo: non si affida soltanto a “bosses or managers” il compito di valutare le performance individuali e di determinare i compensi. Si richiede anche ai dipendenti di valutare il contributo dei pari e il loro impatto sull’azienda: il coinvolgimento dei dipendenti nella valutazione dei/tra pari permette di avere un punto di vista più articolato sulle storie e sulle azioni che incidono nei risultati dell’azienda.

La meritocrazia delle idee secondo Ray Dalio

Tra le molte indicazioni pratiche ricavabili dal libro di Ray Dalio intitolato I principi del successo ce ne sono alcune che riguardano la meritocrazia delle idee. Sulla copertina dell’edizione italiana del libro spicca il giudizio di Bill Gates: “Ray Dalio mi ha offerto un aiuto inestimabile, fornendomi i consigli che ora voi potete leggere in questo libro”.

Premessa: Dalio è il fondatore della Bridgewater Associates, quinta private company degli Stati Uniti, nota per avere fatto guadagnare ai suoi investitori più di qualsiasi altro hedge fund nella storia.
Tra tutti i principi proposti nel libro, Dalio sottolinea che la meritocrazia delle idee è il migliore approccio possibile ai processi decisionali.

Di cosa si tratta? Si tratta, in primo luogo, di creare le condizioni affinché tutti, nell’organizzazione, possano esprimersi con chiarezza e franchezza, la qual cosa ci rimanda al principio della psychological safety di cui abbiamo già trattato in questo articolo.

Più precisamente, Dalio sottolinea la centralità di tre momenti. La meritocrazia delle idee richiede alle persone:

- 1) di esprimere con franchezza e sincerità le loro opinioni, affinché tutti possano conoscerle;
- 2) di dissentire in modo ragionato, scambiandosi argomentazioni in modo costruttivo, in modo da arrivare a risposte collettive che siano le migliori possibili;
- 3)adottare dei metodi meritocratici per superare i disaccordi restanti, legando le decisioni a processi di valutazione ponderata delle opinioni espresse.

Affinché il confronto tra le idee e l’elaborazione del disaccordo risultino produttivi sono però presupposte buone competenze relazionali, cioè le soft skills. È il caso di ricordare che esse non sono una nostra dotazione “spontanea”, ma vanno allenate.
Nell’organizzazione di Dalio la competizione non è tra le persone, ma tra le opinioni. Non si cercano singoli che siano convinti di avere sempre opinioni migliori degli altri o che cerchino di primeggiare e di dimostrare la propria superiorità, ma singoli capaci di entrare in uno spazio di confronto e conflitto tra punti di vista, con l’obiettivo di fare emergere dall’interazione l’opinione migliore.

Il primo a doversi mettere in gioco, in un’organizzazione di questo tipo, è chi ha più potere, cioè lo stesso Ray Dalio. Per dare un’idea di cosa ciò significhi, egli cita il messaggio ricevuto da un suo collaboratore dopo una riunione:

«Ray, meriti una D (insufficienza) per la tua performance alla riunione di oggi. Non ti eri preparato per niente, perché non è possibile che ti fossi preparato e che sia venuta fuori una presentazione così caotica. Per il futuro ti chiederei di prenderti un po’ di tempo e di prepararti. Se pensi che io mi stia sbagliando, chiedi agli altri, oppure possiamo parlarne direttamente».

Deve esserci davvero un elevato livello di “sicurezza psicologica” nell’interazione tra le parti, per far sì che un collaboratore di Dalio si senta libero di scrivere una mail così diretta e franca al capo sulla qualità della sua presentazione.
E senz’altro un feedback di questo tipo può essere utilissimo al capo, che così ha la possibilità di capire dove ha sbagliato e come è stato effettivamente percepito dagli altri: senza questo feedback – o, peggio, con feedback insinceri e compiacenti – il capo rischierebbe di piegare «al ribasso» la qualità delle sue presentazioni, con conseguenze dannose per la sua immagine agli occhi dei dipendenti.

Se ben gestita, questa franchezza d’interazione non comporta una riduzione dell’autorità del capo, ma il formarsi di un’autorità peculiare, aperta a migliorarsi attraverso la libera e rispettosa circolazione dei feedback positivi e negativi.

Durante le riunioni in cui si fanno ipotesi su questioni controverse, dunque, ogni partecipante è invitato a dare valutazioni altrettanto franche sulle idee espresse dagli altri. Tali valutazioni sono evidenziate in una matrice di posizioni come la seguente.

 

Nella prima cella in alto a sinistra si noteranno sull’asse delle ascisse il viso di Dalio e sull’asse delle ordinate il viso di una neolaureata ventiquattrenne impiegata in azienda. Il “3” indica il punteggio attribuito dalla ragazza a un’opinione espressa da Dalio durante un passaggio della riunione: anche in questo caso si può notare che la giovane neolaureata si è sentita “sicura” nell’esprimere la propria valutazione, perché evidentemente ha afferrato che in quel contesto la franchezza è richiesta per migliorare il processo di decisione collettiva (collective decision making).

Per un’introduzione più dettagliata al metodo, raccontata dallo stesso Dalio, ecco una presentazione TED di Dalio, sottotitolata in italiano, e diffusa con il seguente titolo: Come costruire un’azienda in cui le idee migliori vincono.

Se ne potranno ricavare indicazioni pratiche da applicare alle proprie riunioni.

Dalla meritocrazia al talent management

Ci sono moltissime ragioni per desiderare ambienti “meritocratici”, in cui chi arriva per primo in una posizione non ci resti per sempre se risulta inadeguato o se altri si rivelano migliori, in cui non si formino sfere inscalfibili di privilegi immotivati e in cui si abbiano opportunità correlate alle competenze, all’impegno e alla cura che si mette in quel che si fa (nel fare le cose e nel relazionarsi agli altri).

Gli esempi considerati fin qui suggeriscono che non è detto che la competizione aiuti nel perseguire questi obiettivi e che, anzi, la cornice della competizione può creare grossi problemi quando e in quanto mette il singolo contro altri singoli e contro la squadra, oppure parte di un’azienda contro un’altra parte.

L’idea di “competizione”, comunque, può essere declinata in modi differenti. Del resto, alle origini della letteratura occidentale, già Esiodo scriveva dell’esistenza di una duplice “Eris” (Contesa): da un lato, la contesa degna di biasimo, che alimenta astio e invidia e favorisce guerra e discordia perché spinge a primeggiare contro gli altri; dall’altro lato, la contesa che spinge all’emulazione degli esempi migliori per migliorarsi, attraverso il lavoro.

Andando alla ricerca di modelli meritocratici non compromessi dalla competizione che suscita scontro e divisioni ci si imbatte nella questione del talent management.

Chi considera le cose da questa prospettiva, invita a spostare il focus dalla misura delle prestazioni individuali alla scoperta delle diverse potenzialità individuali, da sostenere e coltivare in modo differenziato.

In altre parole: la meritocrazia può consistere nello sforzo di riconoscere i differenti talenti e le differenti attitudini e competenze dei singoli, valorizzandoli in modo adeguato, con misure adatte all’impegno e alle capacità individuali. Riconoscendo l’esistenza di differenze sul piano dei talenti e delle competenze, non è necessario mettere i singoli dipendenti gli uni contro gli altri, perché la priorità del talent management consiste nell’adozione di misure adeguate a sostenere lo sviluppo di chi mostra di avere delle potenzialità meritevoli di essere messe in azione, favorendo così tanto i singoli, quanto le squadre in cui lavorano e l’azienda nel suo insieme.

La prospettiva del talent management richiede inoltre di passare dalle valutazioni periodiche sulle performance individuali alla circolazione continua di feedback e alla comunicazione aperta. Tra le aziende citate negli articoli sul tema si trovano Deloitte, Microsoft, Adobe, General Electric e Accenture, per l’eliminazione di ranking e valutazioni annuali sulle performance, mediante l’adozione di un sistema più fluido e continuativo per la circolazione di feedback sulle prestazioni e sulle prospettive dei lavoratori. Considerando il caso di Accenture, ciò significa che il sostegno dato alle persone individuate come “top performer”, anche attraverso piani di carriera molto veloci, non esclude l’impegno nella ricerca del talento di ogni dipendente.
Per approfondire, si veda questo articolo sul Washington Post.

Come tenere conto del merito nelle soft skills

Concludiamo questo contributo sviluppando gli spunti proposti da Daniele Pigni, esperto di strategie per la gestione del personale presso Boston Consulting Group, in un articolo pubblicato sulla piattaforma Management Innovation eXchange.

Anche in questo caso l’autore invita a lavorare sulla meritocrazia tenendo conto delle molte variabili influenti sulle performance individuali. Con un esempio: se John e Jane lavorano nello stesso ruolo e settore, ma in due sedi e aree geografiche diverse, sulle loro performance individuali incidono la natura del mercato in cui operano, le qualità dei rispettivi boss, la presenza (o assenza) di colleghi che abbiano caratteristiche e aspirazioni simili alle loro, la qualità dei collaboratori e così via.

Per tenere conto di tutto ciò la misura “secca” delle performance individuali dovrà essere rimodulata tenendo conto di indici come i seguenti: market challenge index (che indica quanto sono sfidanti i due mercati in cui John e Jane operano, tenendo conto delle performance storiche lì registrate), l’indice di volatilità (relativo alla durata media dei progetti nei mercati considerati), l’indice di visibilità (relativo alla diversa visibilità dei progetti realizzati in diverse aree geografiche), il career growth index e l’available support index (relativi allo sviluppo di carriera tipico e alla disponibilità di supporto efficace per la crescita individuale nelle aree considerate).

Si tratta solo di alcuni esempi di indici che andrebbero messi a punto per una maggiore equità nella valutazione, cioè per dare il giusto peso a quel che i singoli individui fanno, tenendo conto dei vincoli del contesto.

Tra parentesi, questo è uno degli aspetti del tutto trascurati nella relazione di Barbara Serra sul lato spietato della meritocrazia: il rendimento al 99% di una persona può valere più di quello al 100% di un’altra persona, se la prima ha dovuto superare molti più ostacoli per arrivare a quel punto; mentre l’opportunità di fare esperienze internazionali e stage significativi già da adolescenti può dipendere dalla sorte, dal contesto e dalla rete sociale in cui ci si trova a vivere, più che dai meriti individuali.

Dal contributo di Daniele Pigni riprendiamo e sviluppiamo (con una tabella) un altro spunto cruciale. Per chi riconosce la crescente importanza delle soft skills negli ambienti di lavoro contemporanei, nel valutare le caratteristiche individuali se ne dovrà tenere conto, inserendole in tabelle come la seguente:

In una tabella di questo tipo potrebbero rientrare molte altre soft skills, ad un livello di dettaglio adeguato ad ogni singola azienda. Tenendo conto degli studi e dei casi fin qui esaminati, ci sono buone ragioni per ritenere che orientarsi a vedere la meritocrazia in questa prospettiva può aiutare ad attrarre e a trattenere i talenti, favorendo la diffusione di una consapevole cultura della collaborazione, che di riflesso dovrebbe manifestarsi con lo sviluppo delle capacità collaborative dei leader e di tutti i dipendenti.

Checklist

Leggi questa lista e verifica se nella tua azienda esiste un metodo efficace e valido per valutare il livello di meritocrazia garantito dei tuoi collaboratori.

  1. Nella mia azienda la competizione tra singoli dipendenti è parte integrante della meritocrazia? In caso positivo, sono emersi episodi spiacevoli e altre controindicazioni tipiche della cattiva gestione della competizione?

  2. Nella mia azienda esistono misure per contrastare le distorsioni sistematiche di giudizio nella valutazione dei meriti? A parità di meriti, si può dire che le donne abbiano le stesse opportunità dei colleghi uomini?

  3. In quali contesti/situazioni potrebbe essere utile l’approccio della “meritocrazia delle opinioni”? Esistono le condizioni (tra cui la “sicurezza psicologica” diffusa) per implementarla?

  4. Quali nessi esistono, in azienda, tra meritocrazia e talent management?

  5. Nella valutazione dei meriti si tiene conto della qualità delle soft skills dei dipendenti? Quali voci “cruciali” mancano o non sono considerate con la dovuta attenzione?

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