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In difesa della signorina Rottenmeier, per un nuovo patto fra genitori e insegnanti

Articolo. L’autorità di un educatore è un bene di per sé, perché aiuta a definire i ruoli e vivere meglio. L’obbedienza non è sempre una virtù, ma per imparare a ribellarsi – e a crescere – serve qualcuno o qualcosa verso cui farlo. Senza che i genitori lo facciano al posto dei bambini

Lettura 4 min.

Cosa sarebbe accaduto ad Heidi se il signor Sesemann, padre di Clara, invece di essere quasi del tutto assente – caratteristica immagino scontata nei padri delle passate generazioni – si fosse messo a polemizzare con le decisioni educative della signorina Rottenmeier? Magari Heidi, sentendosi accolta, sarebbe diventata una perfetta cittadina di Francoforte e non avremmo avuto più nessun romanzo.

Qui non voglio difendere la signorina Rottenmeier in sé: oggi sappiamo benissimo che esistono metodi pedagogici più efficaci della minaccia e della reprimenda. Lei non lo sapeva, essendo una semplice governante del 1880. Qui difendiamo il principio di autorità della signorina Rottenmeier, nella convinzione che, per il benessere stesso dei bambini, un’autorità imperfetta sia meglio di nessuna autorità.

La riunione di classe

Ci ho pensato la scorsa settimana, mentre partecipavo alla mia prima riunione di classe da genitore. Non perché le maestre di mio figlio mi abbiano ricordato Fräulein Rottenmeier: sembrano tutte professioniste di esperienza e persone di buon senso, che malgrado anni nella scuola ancora non odiano i bambini.

A un certo punto, la coordinatrice dice alla platea dei genitori: «Se c’è qualsiasi problema o siete in disaccordo su qualcosa parlatene con noi, da adulto ad adulto, non fatelo mai con i bambini perché poi non ascoltano più l’insegnante e lavorare insieme diventa difficile». Racconta che capitano bambini che rispondono alla maestra: «Eh, ma il mio papà ha detto che questa cosa non si fa così» e non rispettano più le consegne.

Noi genitori ci guardiamo di sottecchi, convinti che a noi non capiterà mai di commettere errori così marchiani, e fiduciosi di una serena collaborazione fra scuola e famiglia. Così come deve essere. Vedremo se ci riusciremo, anche quando riterremo – a volte a ragione – che i nostri figli siano stati vittima di un’ingiustizia o che un insegnante non sia all’altezza del suo ruolo.

Genoveffa Manganoni

Da un cassetto della memoria mi è tornata in mente lei, la “mia” signorina Rottenmeier: Genoveffa Manganoni (nome di fantasia, non troppo dissimile dal vero), una delle mie maestre alle elementari. Era molto vecchia scuola: nei suoi sogni i bambini avrebbero dovuto darle del lei chiamandola «signora maestra», ma già negli anni ’90 questa era pura fantascienza. Somigliava in tutto alla signorina Rottenmeier: arcigna, ossuta, occhiali antichi, credo avesse pure un porro sulla guancia. Era generalmente ritenuta severa e molto richiedente, ma non da me: io avevo fatto la prima elementare con la maestra Rosaria, che era più dolce e capace di Genoveffa, anche se più esigente (qui si potrebbe aprire una lunga parentesi sul luogo comune secondo il quale gli insegnanti più amati sono quelli più lassisti, ma la faccio breve: non è mai vero).

Torniamo alla maestra Genoveffa: la sua fama la precedeva («Povera te che sei in classe con la Manganoni») e non faceva nulla per rendersi amabile. A me e ai miei compagni stava antipatica, e non escludo che alcuni bambini possano averla sofferta più di altri. Ma quelli che la sopportavano meno erano un gruppetto di genitori, capeggiati dalla rappresentante, una donna estroversa e volitiva, di quelle che si offrivano sistematicamente per accompagnare la classe in gita ed erano amiche di tutti i bambini. Ricordo, proprio in fondo al pulmino della gita d’istruzione, un intero viaggio da lei passato a denigrare la Manganoni – che naturalmente sedeva impettita accanto all’autista – svelandone le debolezze e le piccole malefatte, mettendo in discussione tutto: dalle note sul diario ai compiti assegnati.

Risultato: la maestra Genoveffa Manganoni divenne lo zimbello della classe. Ridimensionò le sue richieste, ma i bambini non le davano retta lo stesso. Era frustrata, incattivita, e in qualche occasione lei stessa ci parlò male di noi e dei nostri genitori, in un cortocircuito ormai inevitabile.

Il valore della ribellione

Evitare di mettere in discussione l’autorità dell’insegnante non serve “solo” a mantenere una certa pace in classe, ma anche a lasciare che i bambini, soprattutto quelli più cresciuti, imparino a combattere da soli le proprie battaglie. Il concetto stesso di ribellione, e di crescita, non esiste se non c’è qualcosa verso cui ribellarsi o se gli ostacoli da superare sono sistematicamente rimossi da qualcun altro.

La signorina Rottenmeier, probabilmente anche grazie all’indovinato nome cacofonico, è diventata la personificazione della zitella acida che impartisce un’educazione rigida, fredda e severa ai bambini. A posteriori, penso che una maestra ossessionata dallo studio, dal controllo e dal senso del dovere, non sia il peggio che possa capitare a un bambino. Lei, dopotutto, voleva solo che Heidi imparasse a leggere e scrivere, piuttosto che a fischiare alle capre. Non mi sento di darle torto.

Ho definito la Rottenmeier «zitella acida» non a caso, perché nella narrazione tradizionale l’acidità è una peculiarità tipicamente femminile, ma giammai materna. Caratteristica del materno è la dolcezza. Ma, ahimè, con la dolcezza non c’è tragedia e non c’è spinta narrativa. Per questo sia Clara sia Heidi sono orfane, come tante eroine della nostra infanzia.

Era orfana anche Prisca Puntoni, protagonista del best seller di Bianca Pitzorno «Ascolta il mio cuore» (Mondadori, 1991), che intere generazioni di bambine hanno letto avidamente. Anche lei si batteva contro la “sua” signorina Rottenmeier, la maestra Argia Sforza. Era ben più perfida dell’originale teutonico, perché alla severità univa opportunismo, ipocrisia, perfidia e un deciso classismo nei confronti delle alunne povere della sua scuola. Prisca e le sue compagne, nove anni, non chiedono aiuto alla loro pure amorevoli famiglie per battersi contro i soprusi dell’insegnante (il romanzo è ambientato nel Dopoguerra), ma lo fanno da sole, con gli strumenti bizzarri e immaginifici dell’infanzia, sbagliando e rischiando in prima persona.

Per un po’ di mascara

Ricordo con affetto una valorosa battaglia di solidarietà che combattemmo io e le mie compagne delle scuole medie. Il tema del contendere era dei più sciocchi: il trucco a scuola. Una nostra compagna era stata mandata dalla professoressa di italiano a lavarsi la faccia in bagno perché aveva gli occhi bistrati di nero. Dispiacendoci di vederla così umiliata, decidemmo il giorno dopo di venire tutte a scuola truccate. Ci sentivamo eroiche come Rosa Parks, un fiero gruppo di resistenti all’oppressione.

Grazie al cielo, gli adulti ne stettero fuori: i genitori non polemizzarono con la professoressa, né per darle torto né per darle ragione. Lei stessa, vedendoci l’indomani conciate come panda, ebbe l’intelligenza di abbozzare, sorridere, e aspettare che ci passasse. All’epoca non ci pensai proprio, ma adesso lo considero un grande regalo che ci fu fatto, il loro non fare niente. Genitori “assenti”, proprio come il signor Sesemann. Ora sembra una bestemmia, ma a volte è proprio tutto quello di cui un ragazzino ha bisogno.

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