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La diversità vista con gli occhi dei bambini

Articolo. Donne e uomini, bianchi e neri, abili e disabili: come percepiscono le differenze i bambini? Le vedono, ma in maniera diversa dagli adulti. E spetta a noi stare attenti a non leggere la loro realtà con i nostri occhi

Lettura 4 min.

Ricordo un collega stupirsi della risposta che la figlia dodicenne gli diede alla domanda: «Hai compagni di scuola stranieri?». La ragazzina disse semplicemente: «Stranieri in che senso?». Una conversazione che ci ricorda come la percezione della realtà possa essere radicalmente diversa fra una generazione e l’altra, in base alle diverse esperienze di vita. Se un bambino è abituato fino dalla scuola dell’infanzia a entrare in relazione con compagni di provenienze diverse come può considerarli “stranieri”?

La questione della “razza”

Siamo noi “anziani”, abituati a una sostanziale omogeneità etnica quando andavamo a scuola (come ho raccontato qui), a riuscire a individuare con precisione chirurgica chi non è “italiano-italiano”, in base a un cognome, una sfumatura della pelle, una madre che si presenta a scuola indossando il velo.

Per questo trovo abbastanza ridicolo ogni benintenzionato discorso antirazzista da parte nostra, a meno che non si tratti (doverosamente) di smentire parole o atteggiamenti razzisti cui i bambini sono stati involontariamente esposti. Non siamo noi a dovere spiegare ai nostri figli che i bambini sono tutti uguali e le “razze” (razze?) non contano. Sono loro che lo spiegano a noi, semplicemente vivendo.

Allo stesso modo sono piuttosto inutili i libri che raccontano come tutti i bimbi del mondo debbano essere amici, e che spiegandolo puntano proprio il dito su alcune differenze che dai bambini nemmeno verrebbero percepite (un giorno farò un articolo sui libri per bambini che sono in realtà libri per i genitori).

Il peso della storia

Non voglio banalizzare le differenze razziali in nome di un semplicistico “siamo tutti uguali”, solo ricordare che ciò cui noi diamo importanza ha sempre delle ragioni storiche e culturali. Portiamo sulle nostre spalle, in modo più o meno consapevole, il peso della storia, del colonialismo, il manifesto della razza, le colpe e i cliché accumulati nei secoli. E sono pesi che, prima o poi, ricadranno anche sui nostri figli, spero il più tardi possibile, in modo da potere affrontare razionalmente certi discorsi, partendo già da una solida base di acquisita fratellanza.

Non c’è un giudizio di valore: mio figlio quattrenne non percepisce come “nera” la sua compagna di scuola Vanessa (nome di fantasia) non perché sia “buono” o antirazzista. Non ci fa caso semplicemente perché è nato in via Quarenghi, vede persone di ogni colore da quando ha aperto gli occhi e né in casa né a scuola puntiamo l’attenzione su questo genere di differenze.

Viceversa ricordo mia cugina, a due anni, piangere disperata di fronte a un amico nero dei miei zii perché era la prima volta che ne vedeva uno. Non è questione di razzismo, ma di abitudine. E lo stesso discorso vale, naturalmente, a colori invertiti.

Ma quindi, non vedono le differenze?

Questo non vuol dire che i bambini non vedano le differenze. È che non le vedono nel modo in cui le vediamo noi: siamo noi che abbiamo codificato alcune caratteristiche come più rilevanti di altre. Per noi fra una donna bianca e una donna nera la differenza più rilevante sarà sempre il colore della pelle. Per un bambino potrebbe essere altro: l’acconciatura, un neo sulla fronte, lo smalto.

Proprio alle unghie devo una delle peggiori figure fatte in pubblico: «Mamma mamma perché quella signora ha gli artigli?», riferito a cliente in coda dal panettiere dotata di spettacolari unghie lunghe (lui è abituato alle mie, smangiucchiate).

I bambini osservano tutto, indicano col dito, fanno commenti inappropriati. Notano le realtà spiacevoli, che noi facciamo fatica a spiegare: il senzatetto, l’ubriaco, il mendicante. Un giorno il fratello minore di una mia amica, in auto, mi mise a enumerare: «Una, due, tre...»: stava contando le prostitute lungo la Villa d’Almè-Dalmine.

E noi siamo in bilico, da un lato con la necessità di educarli («Non si fanno commenti sull’aspetto fisico delle persone», «Non si dice “quella” o “quello”», «Devo veramente spiegargli cosa fa una prostituta?») dall’altro con il desiderio di preservarli dai nostri schemi mentali che mai come quando ci confrontiamo con loro appaiono vecchi e inadeguati.

E la disabilità?

Anche il rapporto con la disabilità è una questione di abitudine. Abbiamo un amico di famiglia in sedia a rotelle, perciò per i bambini il fatto che alcune persone si spostano così è un dato acquisito, che non sorprende. L’amico, peraltro, è avvezzo a doversi prestare a “gare di formula 1” col suo potente mezzo, perché i bambini ci si divertono molto. Immagino che, una volta cresciuti, potranno chiedere spiegazioni (a lui o a noi) e le riceveranno, ma se c’è una cosa che ho imparato dagli psicologi che consulto spesso per questa rubrica è che non bisogna anticipare i bisogni dei bambini.

Credo anche che mio figlio abbia un bambino disabile in classe (non ne sono sicura, col Covid i rapporti con gli altri genitori sono praticamente azzerati, così come le occasioni di socialità), ma non ho intenzione di chiederglielo esplicitamente. Do per scontato che per lui sia un compagno fra gli altri. Con delle caratteristiche peculiari che non vanno negate in nome di un falso «siamo tutti uguali», ma che non possono nemmeno essere tutte comprese nell’etichetta di “disabile”, che credo mio figlio nemmeno capirebbe.

Qualche difficoltà in più l’ho riscontrata con le disabilità meno evidenti, ad esempio quelle riguardanti lo spettro autistico. Se, per esempio, al parco un bambino più grande di lui si comporta in modo non convenzionale o ha atteggiamenti che possono sembrargli “minacciosi” (urlare, sbattere oggetti – in effetti cose che talvolta fa anche mio figlio) nota che c’è qualcosa di “dissonante”. Può essere difficile spiegargli che non è semplicemente un bimbo che fa il “monellaccio”, soprattutto se si tratta di una conoscenza estemporanea.

Bambine e bambini

C’è però una differenza oggettiva che mio figlio quattrenne coglie sempre, come tutti i suoi coetanei, ed è quella fra uomo e donna, fra bambino e bambina. Non è una differenza basata sugli stereotipi di genere: non distingue fra bimbi maschi che “giocano a calcio” (anche perché a lui il calcio non piace) e bimbe femmine che “giocano con le bambole”. Non l’ho ancora sentito fare commenti su “cose da maschi e da femmine” (magari non ne farà mai, magari) e non è necessario che la bambina indossi la gonna o abbia capelli lunghi per identificarla come tale: generalmente distingue bene lo stesso e, se ha dei dubbi, chiede.

Ci ha messo un po’ a capire che i sessi sono definiti, che la sorella non diventerà “da grande” un maschio come lui. Per ora i maschi grandi sono tutti dei “papà” e le donne delle “mamme”. Gli anziani, invariabilmente, “nonni”. Ed è questo tutto quello che conta.

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