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Fantascienza e horror tra le vie di Città Alta, Ugo Tognazzi a San Pellegrino: Bergamo al cinema

Articolo. Prosegue nella cornice di Palazzo Moroni la rassegna cinematografica «Pellicole d’autore en plein air», organizzata dalla Federazione Italiana Cineforum come parte del progetto «Cinema al cuore», in collaborazione con il FAI Bergamo. Prima di ciascuna proiezione, a partire dalle 17.30, si potranno visitare le sale museali del palazzo

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Alain Delon nell’episodio di Louis Malle di «Tre passi nel delirio» in Città Alta

Sono quattro gli appuntamenti da non perdere per il “cinema in giardino” a Palazzo Moroni, in via Porta Dipinta di Città Alta. Quattro film d’autore ancora in programma, da stasera a settembre, tre dei quali girati anche a Bergamo: Tognazzi che si aggira nei saloni liberty del Grand Hotel di San Pellegrino, Alain Delon che corre allucinato tra le vie di Città Alta. Città Alta che ospita anche una singolare riedizione del «Frankenstein» ad opera del mitico regista-produttore statunitense Roger Corman. Titoli che sono chicche da scoprire, e attraverso le quali ritrovare scorci e luoghi familiari, in una veste inedita. La curatela artistica della rassegna è di Alessandro Uccelli e Lorenzo Rossi, autore di Eppen.

«L’innocente» (Luchino Visconti, 1976) – 22 luglio

Secondo titolo in dialogo con la mostra «L’età dell’innocenza. Il Rinascimento di Bergamo e Brescia intorno al 1900» (13 luglio – 8 ottobre 2023) allestita a Palazzo Moroni, dopo «L’età dell’innocenza» di Martin Scorsese, tocca a Luchino Visconti.

Presentato al Festival di Cannes poco dopo la morte del regista avvenuta nel marzo del 1976, il suo ultimo film è una riduzione dell’omonimo romanzo di Gabriele D’Annunzio, con Giancarlo Giannini nei panni dell’edonista dannunziano Tullio Hermil e Laura Antonelli nei panni della moglie Giuliana. È il 1891 e i due vivono nella Roma umbertina un matrimonio che è pura formalità: lui ha una relazione parallela con una contessa, lei è remissiva e non reagisce, finché non ha una tresca con uno scrittore, del quale rimane incinta. Delle vicende che si innescano, Visconti ne fa un dramma che si consuma soprattutto nel chiuso di stanze sontuose, nobiliari, dai toni caldi e cupi, tutte drappi e orpelli e arredi in stile liberty , con la sua classica messa in scena elegante e pittorica. Insieme alla grande sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, porta la storia in una direzione diversa rispetto l’originale, variandone il finale.

Attrazione e repulsione, schizofrenie emotive e passionali: nel vortice di questi tumulti si riflette sulla connotazione patriarcale dei rapporti sociali e familiari, sulla condizione femminile, sull’aborto. Temi già di stringente attualità quando uscì il film, e che tali si mantengono oggi.

«Tre passi nel delirio» (Fellini, Malle, Vadim, 1968) – 29 luglio

Cinque anni prima, nel 1963, era stato uno dei maestri dell’horror italiano, Mario Bava, ad adattare tre racconti di scrittori russi in «I tre volti della paura», uno dei suoi horror più celebri («Black Sabbath» nella versione internazionale – qualcuno poi ci ha preso spunto per il nome di una band heavy metal). Cinque anni dopo, nel solco della tradizione del film collettivo a episodi così frequentata durante gli anni Sessanta, ecco i «Tre passi nel delirio» in cui tre registi adattano tre racconti di Edgar Allan Poe. Sono Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini. Il primo mette in scena «Metzengerstein», la storia di una contessa-despota che respinta dal cugino cavaliere ne brucia le stalle causandone la morte: un solo cavallo riesce a salvarsi, e con questo la donna stringerà un rapporto ossessivo. Louis Malle dirige invece «William Wilson», con Alain Delon e Brigitte Bardot: un uomo che confessandosi ripercorre alcuni episodi della sua vita, e il rapporto con il suo doppelgänger, con cui si confronterà in uno scontro mortale tra le arcate del Palazzo della Ragione e Piazza Vecchia. Notevole anche la sequenza iniziale, con la folle corsa di Alain Delon tra le vie di Città Alta, grande protagonista dell’episodio.

Federico Fellini dirige infine «Toby Dammit»: un attore in declino finisce in Italia per girare un western e lentamente sprofonda in un delirio allucinatorio che lo porterà alla morte, dopo una corsa sulla Ferrari con cui lo hanno convinto ad accettare la parte. Forse l’episodio più elegante e di maggior complessità visiva, Fellini si mette in modalità-tributo a Mario Bava e al suo marchio di fabbrica dai colori caldi e saturi.

«Primo amore» (Dino Risi, 1978) – 19 agosto

Nel 1978 sono due anni dalla liberalizzazione dell’etere, sono nate le prime emittenti televisive private, il mondo dello spettacolo è agli albori di un cambiamento epocale in cui la televisione è destinata ad occupare uno spazio privilegiato. Uno di quei momenti che segnano un prima e un dopo, in cui è più netta e spietata la separazione tra ciò che è stato e ciò che sarà, tra vecchi protagonisti in declino e nuovi astri nascenti. È nel solco di questa fase di passaggio, con il portato nostalgico e i risvolti anche penosi, che Dino Risi racconta la storia di Ugo Cremonesi detto “Picchio” (Ugo Tognazzi), vecchio attore del varietà che ha terminato i suoi giorni di gloria e, ricevuta la liquidazione, cerca nuova linfa vitale nell’amore verso una giovane conosciuta in una casa di riposo (Ornella Muti).

Una finzione che finisce per dialogare un po’ anche con la realtà, e da questo punto di vista il personaggio di Picchio sembra ritagliato apposta su Tognazzi, per certi aspetti. Una San Pellegrino innevata e il Grand Hotel (dove ha sede la casa di riposo per artisti in cui soggiorna Ugo) sono il set della prima parte del film: e c’è da dire che fanno proprio una bella figura.

«Frankenstein oltre le frontiere del tempo» (Roger Corman, 1990) – 2 settembre

Roger Corman è una delle personalità del cinema più importanti degli Stati Uniti, ormai da parecchi decenni. Oggi è una leggenda vivente di ben 97 anni. Se ne parla spesso come re dei b-movies e dell’exploitation, ma ha avuto un notevole impatto tanto nel cinema indipendente quanto in quello mainstream: da regista e soprattutto da produttore con la leggendaria New World Pictures (che negli anni Settanta distribuiva anche il cinema d’autore europeo negli USA). «A Roger Corman veniva attribuito gran parte del merito di avere lanciato la carriera di molti giovani registi che dai film per i drive-in erano passati alle majors» ha scritto Quentin Tarantino nel suo ultimo libro. Coppola, Scorsese, Jonathan Demme sono solo alcuni. Jack Nicholson ha debuttato con Corman, e con lui Charles Bronson ha avuto la sua prima parte da protagonista. Insomma, un demiurgo del cinema americano (e dell’immaginario) del secondo Novecento.

Questa sua rivisitazione di «Frankenstein» in chiave splatter-fantascientifica, con un terzo atto dalle venature quasi cyberpunk, è il suo ultimo lavoro dietro la macchina da presa. Tratto dal romanzo «Frankenstein Unbound» (1973) di Brian Aldiss, racconta la storia di uno scienziato-produttore di armi del 2031 che con un viaggio nel tempo finisce a Ginevra nel 1817 (che in realtà è Città Alta). Qui si imbatte nei personaggi del mondo di Victor Frankenstein, e nella stessa Mary Shelley nel pieno del suo celebre soggiorno lacustre in compagnia del suo amante Percy Bysshe Shelley e di Lord Byron, durante il quale matura l’idea del suo glorioso romanzo.

Il film unisce gotico, horror, splatter, viaggi nel tempo, distopia. Incredibilmente tutto si tiene insieme: certo non un capolavoro, ma puro intrattenimento che riesce perfino ad attualizzare la riflessione sull’etica della scienza. Le scene sul lago sono girate a Bellagio. Menzione d’onore: una grande scena di impiccagione e delirio in Piazza Vecchia.

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