L’inverno in Ucraina, ormai da oltre tre anni, non è più solo una stagione: è una condizione dell’anima. Un freddo che paralizza la vita, la memoria, la speranza, che congela il futuro.
Dal marzo 2022 al novembre 2024, Andrea Valesini ha attraversato questo inverno, documentando l’invasione russa e le sue conseguenze per L’Eco di Bergamo.
Il suo lavoro non è un trattato geopolitico, ma un archivio umano fatto di nomi, volti, dolori e resistenze. È da queste voci che nasce il libro «L’inverno ucraino» edito da Oltre e proprio da queste voci parte anche questa intervista, in cui Valesini riflette sul senso del giornalismo, sulla fede nei tempi più bui, sulla giustizia che tarda ad arrivare.
CP: Da dove nasce, in mezzo al dolore, la forza di credere nel perdono, nell’umanità?
AV: Paradossalmente — ma solo fino a un certo punto — la guerra genera nelle vittime un bisogno fortissimo di giustizia. Quando subisci un crimine, quando ti portano via la casa o il lavoro, quando ti uccidono un familiare, quello che chiedi è giustizia. Chiedi che ci sia una forma di riparazione, che qualcuno si assuma la responsabilità di ciò che hai subito.
Questa domanda di giustizia, però, può anche trasformarsi in sentimenti negativi: desiderio di vendetta, odio. Per evitarlo, serve appunto una risposta — una giustizia concreta, una riparazione reale. Purtroppo nei conflitti la giustizia arriva molto raramente. I responsabili delle guerre, quelli che violano il diritto internazionale e umanitario, quasi mai riconoscono le proprie responsabilità. E così nasce un senso di frustrazione profondo.
Le persone si trovano allora davanti a un’altra domanda: che senso ha tutto questo dolore? Accanto alla rabbia (tanta) ho trovato nelle persone che ho incontrato anche due altre risposte possibili. Alcuni trovano conforto nella fede. Non potendo contare su una giustizia terrena, si affidano a Dio. Altri decidono consapevolmente di non cedere all’odio. Perché — mi dicono — l’odio è lo stesso sentimento che genera le guerre. Non vogliono diventare simili a chi li ha colpiti.
CP: Il mestiere di raccontare: responsabilità, ascolto e rispetto
AV: Raccontare una guerra non significa soltanto descrivere bombe e distruzioni. Per un giornalista, entrare in un teatro di conflitto significa confrontarsi con il dolore altrui, ascoltarlo da vicino e decidere come restituirlo al lettore senza tradirlo, senza violarlo. È un equilibrio delicato, un esercizio di responsabilità e rispetto, in cui la narrazione non può prescindere dall’etica.
Non so bene perché, ma le guerre mi hanno sempre attratto. Forse perché rappresentano la forma di violenza più estrema, più diffusa, più impunita sull’umanità. Ho sempre sentito il bisogno di vedere da vicino, di ascoltare le vittime. Di solito le persone hanno un grande bisogno di raccontare quello che è accaduto. Raccontarlo significa rendere visibile l’ingiustizia, sperando che questo generi una reazione, anche politica, a livello internazionale. C’è poi un altro aspetto che mi ha sempre colpito: la gratitudine. Le persone ringraziano perché si sentono ascoltate, riconosciute come esseri umani. Non più numeri, target, obiettivi. Ma persone.
Il mio patto morale è questo: non usare mai il dolore degli altri per fare spettacolo. Non pubblicare dettagli inutili o intimi. C’è una parte della sofferenza che va rispettata, anche se si ha il compito di raccontarla.
CP: Chi ha attraversato i luoghi della morte porta dentro di sé un’eco sonora impossibile da ignorare.
AV: Anche il silenzio, in quei luoghi, ha un suono diverso, quasi fisico, che racconta assenze. È il silenzio dei palazzi svuotati, dei parchi deserti, dei giochi interrotti. È un silenzio irreale, innaturale. Un silenzio imposto con la violenza. Ti trovi in quartieri distrutti, con condomini bruciati, parchi deserti, negozi abbandonati. E vedi resti di vita: un mobile, un vestito, un giocattolo.
Capisci che quel silenzio è stato generato dalla morte. E provoca angoscia. Mi è capitato di commuovermi, ad esempio, quando una donna mi ha mostrato il suo appartamento distrutto. Mi ha indicato dove dormivano i figli, dove si festeggiavano i compleanni. Era un luogo pieno di ricordi, ora cancellati.
CP: Il reportage richiede tempo. Tempo per ascoltare, tempo per capire, tempo per restituire. Ma nell’epoca dell’informazione istantanea, della lettura per titoli, è ancora possibile trovare spazio per una narrazione profonda, che mette da parte le strumentalizzazioni e il sensazionalismo?
AV: A volte, mentre scrivo, mi chiedo: «Ma chi mi leggerà davvero?». Oggi tanti leggono solo i titoli. Eppure continuo, perché sento che è un dovere. Anche se fosse solo una persona a leggere fino in fondo, ne varrebbe la pena. C’è differenza tra chi si informa superficialmente e chi cerca di andare a fondo. Lo vedo nei dibattiti. Chi approfondisce, capisce davvero. E se quello che scrivo può aiutare a comprendere, allora ha un valore.
Il prima e il dopo: la linea invisibile che la guerra incide nelle vite
CP: Ogni conflitto non si limita a distruggere città e paesi: scava anche nella vita delle persone, lasciando una frattura insanabile tra ciò che era e ciò che resta.
AV: La frase che sento dire più spesso nei luoghi di guerra è “prima” e “dopo”. La guerra segna uno spartiacque nella vita delle persone. C’è un “prima” che non tornerà mai più — anche se ti salvi, hai comunque perso qualcosa: un familiare, la casa, il lavoro. E poi c’è il “dopo”, che è pieno di incertezze, soprattutto in un paese ancora in guerra. Vorrei che arrivasse questo: la consapevolezza che la guerra distrugge tutto. Che non ha ragioni, non ha giustificazioni geopolitiche che tengano. È sempre disumana.
CP: Dopo anni di conflitto, la domanda su una possibile fine si carica di attese, ma anche di scetticismo. «Tuttavia - scrivi nel libro - la storia insegna che ogni guerra ha un epilogo. E la speranza resta un’arma necessaria».
AV: Le guerre prima o poi finiscono. Anche solo per logoramento: mancano le forze, le risorse, la volontà. Nel caso dell’Ucraina, è evidente che anche per la Russia questa guerra ha un costo. La mia speranza è che finisca presto, e che si riconosca l’errore. Che si capisca, a livello globale, che la guerra non risolve nulla. Anzi, come il crimine di un singolo è fuorilegge, dovrebbe esserlo anche la guerra. Alcuni dicono che fa parte della natura umana. Ma la natura umana può essere governata, può essere educata. Altrimenti che senso ha parlare di civiltà?
CP: La guerra, oltre che nei fronti armati, si combatte nelle abitudini spezzate, nella quotidianità stravolta. Come è vivere nella zona grigia dove si vive ogni giorno come fosse l’ultimo?
AV: Cambia tutto. Non solo per la paura dei missili o dei droni esplosivi. Cambia il modo in cui si vive. C’è il coprifuoco: alle 23 non puoi più essere in giro. I locali chiudono alle 21 per dare il tempo a dipendenti e clienti di tornare a casa. Ogni edificio deve avere un rifugio antiaereo. Le scuole si riorganizzano, e i bambini devono imparare a scappare, a proteggersi. La vita è stravolta.
CP: Questo senso di precarietà, racconti nel libro, si radica profondamente nella psiche.
AV: È un senso profondo di precarietà. La percezione che la tua vita è costantemente a rischio. È vero, anche nella nostra vita ci sono pericoli: malattie, incidenti. Ma lì, quando senti un allarme aereo, ti senti un bersaglio. Ti rendi conto che la tua vita, in quel momento, non vale nulla. Questo genera reazioni diverse: c’è chi scappa, chi resta. Chi fugge diventa profugo, chi si sposta resta sfollato. E poi c’è chi decide di restare e resistere. Esistono anche forme di resistenza civile, disarmata: chi continua a lavorare, a vivere, ad aiutare gli altri. Le ONG, i volontari, le comunità solidali: si creano reti che permettono di andare avanti.
Quanto siamo disposti a guardare?
CP: Chi paga il prezzo più alto della guerra, si legge nelle pagine del libro, sono spesso i bambini che hanno visto troppo e troppo presto e soprattutto non sanno dare un nome a ciò che hanno vissuto.
AV: È’ vero, non lo si racconta. Lo si trattiene. I bambini sfogano attraverso il corpo, attraverso il pianto, il silenzio, i disegni. Ma non hanno ancora gli strumenti per rielaborare. E per questo è ancora più devastante. In Ucraina si calcola che ci siano circa un milione di bambini a rischio trauma. È drammatico, ma questi temi entrano anche nelle scuole: si insegna la prevenzione, la sopravvivenza. Perché anche i più piccoli devono sapere come affrontare l’allarme, dove ripararsi.
CP: Da questa parte dell’Europa, però, guardare davvero è difficile. L’abitudine alla violenza e l’anestesia emotiva rischiano di renderci ciechi?
AV: È umano. Il dolore degli altri è difficile da sostenere. Viviamo immersi in notizie violente, continue. A un certo punto ci difendiamo, ci anestetizziamo. Ma se non capiamo il dolore degli altri, è difficile capire quanto una guerra sia grave. Anche per chi sopravvive. E se non percepiamo il pericolo, rischiamo di credere che la pace sia la condizione naturale, perenne. Non è così. Tutte le guerre iniziano quando il linguaggio della politica si fa aggressivo, violento, divisivo. È da lì che cominciano i conflitti. Prima con le parole, poi con le armi.
Capire il contesto per non sbagliare diagnosi
CP: In un’epoca di narrazioni polarizzate, il giornalismo ha ancora una funzione cruciale?
AV: Il giornalismo deve raccontare ciò che vede. Essere testimone. In Ucraina, ad esempio, ci sono bombardamenti quotidiani: missili, droni, palazzi colpiti. Non sono scenari da film. Sono realtà. E dove c’è stata occupazione russa, come a Bucha, si sono verificati crimini gravi. È compito del giornalista chiarire chi sono le vittime e chi i responsabili. Oggi c’è confusione: si dice che «sono tutti colpevoli», e così si finisce per assolvere tutti. Invece bisogna nominare le responsabilità, altrimenti non si costruisce verità.
CP: Ogni conflitto è figlio del proprio tempo e delle dinamiche storiche che lo generano. Davvero non possiamo ignorarle per non perdere l’occasione di intervenire in modo efficace?
AV: Sì, è fondamentale. Dobbiamo capire che stiamo vivendo un momento storico di cambiamento profondo, traumatico. La storia si è risvegliata, brutalmente. Dietro ogni azione ci sono dinamiche politiche, consensi, ideologie. Se non le comprendiamo, rischiamo di interpretare tutto come gesto individuale, isolato. E sbagliamo la diagnosi. Anche sulla questione del riarmo: c’è chi lo vede come necessario, chi come pericoloso. Ma prima ancora di schierarsi, bisogna leggere bene la realtà. Capire dove siamo, cosa sta accadendo. Altrimenti si cura il malato con la medicina sbagliata.
CP: Quando i conflitti terminano, non finisce il dolore. Cosa viene dopo?
AV: Resteranno le persone. Le vite trasformate, spezzate, riscritte. E resteranno i sentimenti. Le vittime porteranno dentro un desiderio di giustizia. Ma se quel desiderio non viene ascoltato, rischia di trasformarsi in odio. E l’odio, nel tempo, se non è curato, può generare altre guerre. Per questo è importante non solo che i conflitti finiscano, ma che vengano curate le ferite. Serve verità, giustizia, riconciliazione. Altrimenti le guerre lasciano un’eredità pericolosa, silenziosa, pronta a riaccendersi.
Il libro di Andrea Valesini «L’inverno ucraino», ed. Oltre è in vendita nelle librerie e su Amazon