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Perché i cinesi pensano che i lombardi non lavorino abbastanza?

Articolo. «C’è qualcosa che i cinesi dovrebbero imparare dai lombardi – dice Luigi, un cinese trapiantato nella nostra città – ed è la capacità di riempire il tempo libero dal lavoro. I lombardi però devono imparare da noi cinesi l’attaccamento al lavoro». Dietro a questa affermazione, che noi “lumbard” riteniamo visceralmente falsa e assurda, c’è un mondo che, mentre ci verrà svelato, ci porterà a dare ragione a Luigi. Abbiamo chiesto un aiuto a Daniele Brigadoi Cologna, professore di lingua e cultura cinese dell’Università dell’Insubria

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Una persona al lavoro nella città di Wenzhou, località da cui proviene la prima ondata migratoria cinese in Italia (Foto Wirestock Creators Shutterstock.com)

A Bergamo la Chiesa cristiana cinese conta 150 fedeli. Nella settima puntata del nostro podcast #dallepartidiDio ne avevamo intervistato il pastore, Luigi. Per capirne di più, avevamo anche ripercorso la storia di questa religione in Cina con l’aiuto del professor Daniele Brigadoi Cologna. Al professore abbiamo chiesto ora di approfondire il rapporto tra la comunità cinese e il lavoro.

Il professor Daniele Brigadoi Cologna ci ha spiegato, innanzitutto, che sono almeno tre i fattori decisivi per il successo imprenditoriale dei cinesi. Il primo è l’energia che si genera grazie alla migrazione in un contesto nuovo che offre le condizioni per un riscatto sociale che nella terra cinese di provenienza favorisce solo alcune famiglie. La seconda è una particolare etica del lavoro, fondata sul sacrificio di sé a favore della propria famiglia, che per la minoranza cinese di religione evangelica potrebbe anche legarsi a una certa etica protestante. La terza è l’istituzione del lignaggio, che vincola i membri di un certo clan famigliare a obblighi di solidarietà reciproca.

L’immigrazione cinese in Italia

La prima immigrazione risale al 1926 e proviene in massima parte da una parte specifica della Cina che è l’entroterra della città portuale di Wenzhou, famosa per essere una città cristiana (protestante), tant’è che è chiamata dai cinesi «la Gerusalemme in Cina». Per le sue strade, sin dall’inizio del 1800, sono stati molto attivi i missionari protestanti e tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 anche parecchi missionari cattolici.

La seconda ondata migratoria cinese in Italia è ripresa dalla medesima zona negli anni Ottanta e Novanta. I cinesi di questa ondata sbarcavano con un progetto preciso: a fronte di un impegno intensissimo di almeno 15 o 20 anni, la famiglia e i discendenti avrebbero potuto beneficiare di un miglioramento significativo delle condizioni di vita.

Il dinamismo imprenditoriale dei protestanti della regione di Wenzhou

Nell’entroterra di provenienza dei cinesi italiani è ancora florida una Chiesa protestante cinese (con una dominante Battista) che è quella riconosciuta dal governo e, a seconda delle stagioni politiche, gode anche di un certo sostegno. Fino a dieci anni fa, a Wenzhou, i cristiani protestanti costituivano la classe dominante della regione grazie al loro dinamismo imprenditoriale sviluppato a partire dagli anni Ottanta.

Negli ultimi anni, però, il governo centrale è intervenuto con l’accusa di alimentare una sovrastruttura ideologica non congruente con quella del partito e ha messo in atto una fortissima e inaspettata repressione tutt’ora in atto. L’indomito spirito imprenditoriale ha dunque spinto molti degli abitanti di quella terra ad emigrare.

L’eredità del lignaggio patriarcale

C’è poi un terzo fattore straordinario e unico che consente alle famiglie cinesi emigrate in Italia di diventare imprenditori: il lignaggio patriarcale patrilineare e agnatizio. Tradotto concretamente: la parte più cospicua del reddito generato dal lavoro rimane a disposizione di tutta la famiglia, o meglio del clan familiare, più specificamente dei suoi discendenti maschi.

Questa tradizione fino al 1949 era radicata nella proprietà della terra, che solo per una minima parte veniva divisa tra i discendenti di una singola famiglia che la lavorava. La gran parte rimaneva di proprietà eterna dell’intero clan che abitava nello stesso villaggio e coltivava una terra comune. Questo legame economico da un lato teneva le persone legate alla famiglia e alle sue regole, dall’altra incrementava un patrimonio comune a disposizione di chi presentava un progetto imprenditoriale i cui frutti avrebbero aumentato il capitale del clan. Questo accedeva fino al 1949, quando il partito comunista demolì questa struttura sociale che considerava una forma di contropotere.

Il potere del lignaggio ha però ripreso vigore negli anni Ottanta tra i cinesi emigrati all’estero, non più legato alla terra del clan, ma alle proprietà commerciali di membri di un medesimo clan. I familiari venivano finanziati in una logica di economia creditizia fiduciaria (il denaro viene messo a disposizione senza interessi e senza scadenza) per dare vita ad imprese commerciali e il reddito andava ad accrescere il capitale del clan a disposizione di altre nuove imprese commerciali. Fino agli anni 2010 questa è stata la struttura portante dell’impresa cinese immigrata all’estero.

«Voi italiani siete stranissimi, siete pieni di soldi e non li usate. Vi ci sedete sopra e li consumate piano piano. Non siete come noi». È il mantra dei migranti cinesi che dedicano solo il 10 per cento di quello che guadagnano ai bisogni personali e il restante 90 lo rimettono costantemente in circolo sotto il cappello del clan che garantisce protezione, ma detta rigidi vincoli e di obblighi sociali.

«Mia moglie non sopportava che fossi alle dipendenze di un’azienda di distribuzione dei gelati e così negli anni Novanta ho rilevato un’edicola a Milano. Abbiamo contattato il nostro clan che stava in Olanda e abbiamo ricevuto i 180.000 euro in contanti che servivano. Sono diventato un imprenditore, ho ampliato l’attività e genero ricchezza per il clan. Ora siamo dei buoni cinesi».

L’etica del lavoro e del sacrificarsi a beneficio del lignaggio e dei propri discendenti era molto diffusa nella generazione del sacrificio, ovvero degli anni 80, 90 e 2000, quando questa migrazione era al suo massimo, ma dal 2010 in avanti abbiamo visto un costante calo dell’immigrazione cinese da noi. I nuovi afflussi diminuiscono e la popolazione cinese cresce in virtù di dinamiche riproduttive interne alla propria popolazione in Italia. I nuovi cinesi che sono nati e cresciuti in Italia hanno un panorama mentale interiore molto più simile a quello degli italiani. La prospettiva di lavorare vent’anni come disperati a beneficio delle generazioni future e del clan sta venendo meno. Poi ci sono anche molte coppie miste: più della metà dei matrimoni contratti da cinesi in Italia sono matrimoni contratti da cinesi con non cinesi.

I cinesi sono una comunità chiusa?

Niente affatto. Il problema vero è quello della lingua. Chi è arrivato dagli anni 80 al 2000 raramente ha avuto occasione di imparare bene l’italiano e probabilmente non lo imparerà mai. I cinesi nati in Italia invece frequentano le scuole italiane e se vogliono parlare il mandarino con i genitori o il dialetto regionale con i nonni devono studiarlo. All’interno del «Centro di Ricerca delle minoranze» dell’Università dell’Insubria sono a tema le scuole ereditarie, che sono diventate l’elemento che garantisce la capacità di comprendersi all’interno di un gruppo familiare dove tre generazioni parlano tre lingue diverse. Il nonno parla il dialetto U, i figli il cinese e i nipoti l’italiano.

Quale religione professano i cinesi?

Non è difficile trovare cinesi che nel portafoglio tengono l’immagine della Madonna di Loreto e insieme quella della dea della misericordia o che indossano monili e talismani della religione tradizionale cinese. Sono altrettanto frequenti i riti di tradizione taoista (ma che potrebbero far riferimento a riti sciamanici) praticati per proteggere in bambini. Sono riti molto complessi che vengono officiati da persone generalmente di sesso maschile che sono chiamati wupo, «streghe» al femminile e si vestono da donna; indossano un copricapo a forma di muso di tigre, danzano davanti a un altare con figure del pantheon taoista al ritmo di un’orchestrina taoista. Un cinese che si professa cristiano protestante o cattolico può insieme osservare le tradizioni religiose legate al culto degli antenati. Oppure quando si inaugurano nuove imprese commerciali, è usanza operare dei sacrifici propiziatori. C’è dunque un sincretismo molto diffuso. Non è inconsueto che un cinese che pratica la religione taoista possa chiedere per i suoi cari defunti un funerale buddista o cattolico.

In Cina addirittura, nel corso dell’ultima dinastia, nel tardo periodo imperiale, le cosiddette tre dottrine (confucianesimo, buddismo e taoismo) erano dette un’unica dottrina. Tutte facevano parte di un unico sentire religioso e di un’unica percezione del sacro. Ed è ancora così che viene avvertito da molti cinesi, compresi i cristiani.

Sono almeno tre i valori che i cinesi riconoscono alla dimensione religiosa. Una protezione verso le difficoltà nel poter controllare la propria vita e il proprio destino. L’idea (che ha radici nel concetto buddista di karma) secondo cui compiere buone azioni ti ripaga e che si manifesta nella generosità che le comunità cinesi, anche italiane, dimostrano nelle emergenze nazionali. C’è una radicata convinzione che una persona che si comporta in modo negativo in questa vita o nell’altra sarà punito.

Ci auguriamo di aver contribuito a togliere un pochino il velo alle tante domande che avvolgono la comunità cinese in Italia che, nel silenzio e con grande determinazione, sta cambiano il volto commerciale di tanti nostri paesi.

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