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Territorio, egemonia, senso comune: la storia della Lega nel libro di Paolo Barcella

Articolo. Docente di Storia contemporanea all’Università di Bergamo, storico delle migrazioni, autore di «La Lega. Una storia» edito da Carocci, Paolo Barcella ripercorre la storia del partito che è riuscito a radicare una supremazia politica e culturale nei territori del Nord. Giungendo al passato più recente, emergono la disposizione e le contraddizioni di una parte del Paese attraverso il divenire di una delle sue realtà politiche più longeve (e funambolesche)

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Da sinistra Roberto Castelli, Roberto Calderoli e Umberto Bossi nel 2000 al raduno di Pontida (foto Bedolis)

Milano, la Lombardia, il Veneto, il Nord Italia in generale. Territori con una lunghissima tradizione di migrazione in entrata e in uscita, per secoli attraversati da gente di ogni tipo, gente che viene, gente che va. «Territori migranti», li chiama Paolo Barcella – che questi fenomeni li studia da tempo e li conosce bene – fermandosi anche solo ad osservare il secondo dopoguerra, dove la figura del migrante entra nell’immaginario collettivo scolpito dalle rappresentazioni icastiche delle fotografie di Uliano Lucas e Berengo Gardin, da film come «Il cammino della speranza», «I Magliari», «Rocco e i suoi fratelli». E dalla TV naturalmente.

Svizzera, Germania, Belgio. I paesi che dagli anni Cinquanta ai Settanta assorbono i grandi flussi migratori dei lavoratori del Nord con la formula del Gastarbeiter, il “lavoratore ospite”: permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro, radicamento degli stranieri ostacolato, tendenza all’ostilità, niente cittadinanza, niente diritti sociali o politici. L’impressione di deja-vu non è casuale: c’è una linea di senso – o controsenso, se si preferisce – che unisce l’esperienza collettiva di migranti economici di milioni di lavoratori del Nord e l’ostilità diffusasi tra quegli stessi strati di popolazione nei confronti della migrazione in entrata – meridionali prima, stranieri dopo.

«Quell’ostilità» spiega Barcella «non è il prodotto di un territorio chiuso, votato ai suoi antichi e saldi principi comunitari, alla sua idea di un villaggio con un campanile da difendere, ma nasce e si sviluppa in territori che nei secoli hanno conosciuto la mobilità, la mescolanza di culture, i rapporti con gente venuta da fuori, e vissuto l’esperienza del lavoratore ospite in terra straniera. È un’ostilità storicamente strutturata: si dota di uno schema interpretativo della condizione migratoria, consolida una visione della migrazione, un modo di intenderla politicamente. Qui il passaggio da territori emigranti a territori immigranti vede svilupparsi un’ostilità nei confronti degli immigrati che è in realtà un’ostilità nei confronti di immigrati che non corrispondono al modello di “migrazione” che gli ex-emigranti settentrionali hanno vissuto e concepito come giusto».

Come sempre le cose sono più complesse di come sembrano. È importante quindi non banalizzare il fenomeno leghista considerandolo qualcosa di bizzarro e folclorico rotolato giù per caso dalle valli del Nord. Evidentemente, occorre partire dalle trasformazioni culturali e sociali dell’Italia settentrionale dei primi trent’anni repubblicani per individuare i fattori che ne hanno predisposto la nascita. E per spiegarsi l’origine dell’egemonia “verde”, e il suo successivo radicamento, che ancora oggi connota non solo la politica ma tanta parte del senso comune dei territori in questione, soprattutto delle sue province – securitarismo, protezionismo, gli stranieri-stupratori, gli stranieri-privilegiati, gli “zingari”, l’ideologia del decoro, statali e meridionali fannulloni, la laboriosità come prerogativa morale, eccetera.

«C’è stato un approccio “folklorizzante” o “antropologizzante” dei leghisti, che dava molta rilevanza ad alcuni eccessi estetici e linguistici senza troppo approfondire le dinamiche storiche e sociali di cui invece [il leghismo] era espressione» spiega Barcella. Il suo lavoro cerca di riempire un vuoto percepito nella letteratura prodotta sul partito: «Sulla Lega hanno scritto in tanti ma soprattutto di altre discipline – politologi, antropologi, sociologi, giornalisti – con la tendenza a trattare il fenomeno nella prospettiva dell’attualità politica, continuando a riscoprirlo, di decennio in decennio, come se fosse sempre un fenomeno nuovo».

La Lega Nord si costituisce ufficialmente nel 1989, ma è il punto di arrivo di un processo più ampio iniziato nel decennio precedente. «Attraverso questo libro ho pensato – e l’editore con me – di ricostruire il percorso del partito e di come questo intercetti la storia dei mutamenti sociali ed economici che hanno riguardato i territori settentrionali. Il leghismo sviluppa i suoi primi embrioni alla fine degli anni Settanta, ma stando a molti studi sembrerebbe un fenomeno che arriva con la crisi dei partiti degli anni Novanta: si esclude spesso un pezzo che è invece estremamente rilevante. Negli anni Ottanta il fenomeno era minoritario, ma il periodo – i suoi processi, le sue crisi – è cruciale per capirlo».

Per Barcella il leghismo è il prodotto delle crisi che si consumano tra gli anni Settanta e i Novanta. Trasformazioni che riguardano la politica, la società, la famiglia, il costume, la sessualità, il lavoro. Muta il modo di vivere lo spazio, il tempo, il rapporto con il lavoro e con gli altri.

«Quel mondo trasformato ha messo tante persone nelle condizioni di doversi dotare di strumenti interpretativi nuovi, di dover vivere le tensioni, le contraddizioni di questi processi di trasformazione, che sono avvenuti non senza provocare difficoltà e turbamenti. C’è stato poi all’inizio degli anni Novanta il collasso dei partiti e delle organizzazioni di massa che erano state capaci di organizzare politicamente il dissenso, i malumori, di fornire risposte a dei problemi. I partiti politici dell’Italia della Prima Repubblica avevano goduto a lungo della fiducia di persone che li ritenevano all’altezza di risolvere i problemi. Quando questi collassano, emergono altre spinte e forze. Tra queste, in prospettiva conservatrice, le prime “Leghe”, in Veneto, Lombardia, Piemonte. Forze che rappresentavano un tentativo di ritornare alle cose note del locale, in parte inventandole. Nei primi scritti di Bossi ci sono passi in cui risuona l’Adriano Celentano de “Il ragazzo della via Gluck”. C’è proprio quel clima da tentativo di riprendere il controllo di un mondo che sembrava essere scappato di mano».

L’espansione economica settentrionale degli anni Settanta, la ristrutturazione industriale e lo sviluppo del “capitalismo molecolare” negli Ottanta, il disgregamento dei partiti dei Novanta e la post-ideologia, l’islamofobia occidentale dopo l’11 settembre e l’«elaborazione identitaria» della «civiltà occidentale», la digitalizzazione e la disintermediazione della comunicazione politica degli ultimi dieci anni. Le tappe della storia (non solo) repubblicana individuate servono a leggere il divenire del leghismo, spesso funambolesco: dal localismo al federalismo, dalla secessione degli anni Novanta – con la “dichiarazione di indipendenza della Padania” e la minaccia reale all’unità nazionale – al nazionalismo più recente; da «campioni dell’autonomismo» del “padroni a casa nostra” a «convinti centralisti» nello scaricare a Roma la responsabilità delle zone rosse in Val Seriana nel marzo 2020. E ancora nel presente: dall’apologia della libertà di armarsi e sparare, al Salvini del recente «quando sento parlare di armi io non sono mai felice».

Barcella affronta queste tappe in una prospettiva storica scrupolosa: la raccolta delle fonti, i dati e i riferimenti per contestualizzare e approfondire come fondamenti su cui si basa il discorso. Tuttavia, il racconto resta accessibile, orientato al lettore comune e «a chiunque voglia dotarsi di strumenti per capire, e sia disposto a un piccolo sforzo per farlo». Rigore scientifico, capacità narrativa, freschezza del pensiero, chiarezza espositiva: per come Barcella organizza il discorso, pare davvero l’impasto più adatto a far emergere le contraddizioni e le fragilità delle narrazioni propagandistiche di un partito che nel corso della sua storia ha dimostrato più capacità di cavalcare i conflitti sociali, che di governarli e risolverli:

«Da che mondo è mondo, tutti i contesti che hanno vissuto la presenza di migrazione di massa sono contesti in cui si sviluppa una conflittualità sociale che contrappone gli autoctoni alle comunità migranti. La Lega è riuscita a consolidare l’idea che le migrazioni costituiscano una minaccia e a fornire una proposta politica che sfruttasse quei conflitti. Perché i conflitti ci sono sempre: come li interpreti? Come dai una risposta? Una parte dell’elettorato che proviene dai mondi del lavoro ha ritenuto che quei conflitti dovessero stimolare politiche migratorie di chiusura totale: si erano convinti che il declino progressivo delle loro condizioni di vita – soprattutto alla fine degli anni Novanta e nei dieci anni successivi – fosse da ricondurre alla presenza di lavoratori stranieri e immigrati. Alla caccia dei loro voti s’è mossa la Lega».

Naturalmente la questione migratoria, nella lunga parabola del partito, è una parte di un tutto che è molto più di quanto si possa raccontare in questa sede. Il libro affronta le tappe elettorali e le esperienze di governo, la direzione ondivaga di chi ha inizialmente intercettato ex elettori comunisti, che per primo ha predicato il superamento di destra e sinistra, per poi assestarsi in una posizione xenofoba e ultraconservatrice; il federalismo e il fallimento della Devolution, il passaggio “dal territorio al web” nell’epoca salviniana. In ogni caso è sempre evidente il distacco dello storico: «Pur non condividendo in alcun modo i contenuti e le istanze di questo partito, ho cercato di osservarlo con metodo rigoroso» spiega. «Poi è chiaro che la mia posizione l’ho presa ed esplicito come io interpreti questo partito, però – ed è ciò che fa parte del mio mestiere – non fornisco opinioni moralisticamente fondate, che magari funzionerebbero per capacità di presa dell’attenzione».

Un lavoro che è frutto di quasi due decenni di ricerca condotta anche attraverso lo studio appassionato delle fonti orali. Anche questo dà valore alla pubblicazione: «Ho provato a ricostruire anche il vissuto degli elettori, intervistandone tanti. Erano lavoratori e lavoratrici del Nord che esprimevano una prospettiva politica molto lontana dalla mia, ma che ho indagato con rispetto nei loro confronti. Ho cercato di comprendere cosa e come leggessero la realtà soggetti che hanno fatto – e continuato a fare, in parte – una scelta politica che per me è altamente problematica, ma che riconosco come un’opzione possibile per loro».

Insomma, rifuggire sempre lo stereotipo e quel suo meccanismo che ci porta a usare delle categorie già note per provare a spiegare ciò che ci è estraneo e che non riusciamo a capire: si può dire che non sia esattamente la prerogativa della realtà politica in questione. Lo sia quantomeno dello storico che la considera e la studia, non condividendone i contenuti e i metodi: è questo il caso. Che dire: una lezione, anche di stile. «La Lega. Una storia» sul sito di Carocci Editore.

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