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Avere vent’anni e fondare le Brigate Rosse: «Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR» di Alessandro Bertante

Articolo. Lo scrittore piemontese torna ad affrontare la Storia con la letteratura per raccontare gli albori del brigatismo attraverso la vicenda (narrativa) di un singolo, Alberto Boscolo, ventenne milanese. Tra i dodici finalisti del Premio Strega 2022, un romanzo storico e di formazione che affronta un periodo celeberrimo, poco conosciuto e deliberatamente frainteso. Che coinvolge anche Bergamo

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Idalgo Macchiarini, il primo sequestrato dalle Brigate Rosse

Si potrebbe cominciare smettendo di chiamarli “anni di piombo”. Un’espressione mistificante che è un contenitore vuoto, coniata dal giornalismo ed entrata di conseguenza nel discorso pubblico per via di un errore di traduzione, un’interpretazione libera come spesso accade con l’adattamento dei titoli dei film stranieri. E proprio da un film arriva l’equivoco: «Die bleierne Zeit» di Margarethe Von Trotta, Leone d’Oro a Venezia nel 1981, letteralmente si traduce «Il tempo plumbeo». Succede però che per una specie di alterazione da telefono senza fili l’accezione emotiva si trasforma nel materiale-simbolo: il piombo delle armi. E allora si cristallizza una specie di reductio ad unum che pretende di tagliare il cristallo con la motosega, e gli anni Settanta diventano “gli anni di piombo”: fine della storia.

Eppure c’è voglia di conoscere, di capire meglio quella parte della nostra storia. «Chi erano le Brigate Rosse?», «Cosa volevano le Brigate Rosse?», «Chi finanziava le Brigate Rosse?», «Film sulle Brigate Rosse», «Documentario sulle Brigate Rosse»: sono solo alcune delle chiavi di ricerca più popolari online. Ed è come un sintomo della necessità di tornare su un aspetto di quel decennio – un aspetto parziale, non certo rappresentativo – e di farlo attraverso una narrazione: romanzi, podcast, documentari, film, serie TV: si pensi anche solo al successo del recente «Effetto Notte» di Marco Bellocchio (ne abbiamo parlato qui).

Nonostante questo si registra però un livello piuttosto basso di trattamento dell’argomento dentro il discorso pubblico, al di là di alcuni notevoli prodotti culturali. Sembra esserci una tendenza a ignorare deliberatamente le complessità che hanno caratterizzato quegli anni, in favore dei suoi aspetti più drammatici, quindi drammatizzabili. Si tratta di un tempo che è estraneo al nostro tempo, un contesto sociale e politico difficilmente immaginabile in questo presente da chi quel passato non l’ha vissuto o studiato. Non stupisce allora che guardati ora, gli anni Settanta – ancora così vicini, ancora in via di storicizzazione – siano esposti a facili fraintendimenti, mistificazioni, stigmatizzazioni. Un tempo estraneo al nostro tempo: e come succede con tutte le estraneità che non si comprendono, si finisce a interpretarle con degli stereotipi.

Anche contro questo aspetto sembra voler procedere Alessandro Bertante con «Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR» edito da Baldini+Castoldi. Titolo piacione che forse promette più di ciò che mantiene, ma che si impegna a raccontare “il mito fondativo” – e il contesto in cui si è alimentato – delle Brigate Rosse. Come? Attraverso la storia di Alberto Boscolo, ventenne milanese di famiglia piccolo borghese, studente alla Statale, membro attivo del Collettivo Politico Metropolitano, che è la realtà in cui si muovono i gruppi organizzati degli operai delle grandi fabbriche milanesi e che lavorano per allargare la conflittualità di fabbrica all’intera città, unendosi (non senza frizioni) agli studenti.

Come tanti altri, Alberto è attraversato dalla volontà di cambiare il piccolo angolo di mondo che lo circonda, plasmare il modo in cui vive, combattere l’ingiustizia, la disuguaglianza, lo sfruttamento del lavoro, la torbidità e la connivenza con l’eversione neofascista di parte delle istituzioni statali, sempre più evidente e pervasiva dalla strage di Piazza Fontana (la famosa “strategia della tensione”). Ed è proprio a partire da quell’episodio che la sua militanza entra nel vivo di una nuova dimensione.

Attraverso di lui, e la sua narrazione in prima persona, si assiste alla radicalizzazione durante i primi anni Settanta, quando cioè una parte del CPM – nelle persone di Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini tra gli altri – decide di compiere quella che lo storico Giovanni De Luna ha definito «una brusca accelerazione nel passaggio dall’iniziale interpretazione “difensiva” della violenza a quella “offensiva”».

La logica vede la violenza d’avanguardia come detonatore per un’azione di massa. Inizialmente si risolve in piccoli attentati incendiari a vetture e nel sequestro lampo del dirigente del Sit-Simens Idalgo Macchiarini. Lo sguardo e le riflessioni di Alberto conducono nel vivo di un contesto dal quale non si può prescindere per capire (che non significa giustificare) i motivi di certe scelte: l’Europa costellata da regimi militari – Spagna, Portogallo, Grecia – la recrudescenza del fascismo anche in Italia, il terrorismo nero, i complotti militari, i tentativi di colpo di stato, lo stragismo. Gli attentati ai treni dell’estate del 1969, la strage di Piazza Fontana nello stesso anno, la Strage di Gioia Tauro del 1970, la strage alla Questura di Milano del 1973. E più avanti piazza della Loggia, l’Italicus, fino alla strage della stazione di Bologna nel 1980. Tutti episodi a opera di organizzazioni neofasciste in cui furono implicati uomini dello Stato. Uno Stato che, scrive De Luna, «ha poi sempre rinunciato a fare giustizia ogni volta che si profilava un coinvolgimento dei suoi apparati».

Un contesto di riferimento, si diceva, imprescindibile per capire – non per giustificare, ribadiamo – almeno in parte i moventi che hanno spinto piccoli gruppi di militanti politici a scegliere la strada della lotta armata e della violenza politica. Qualcosa che, sul finire degli anni Settanta e per altri motivi, ha riguardato da vicino anche Bergamo città e provincia, si pensi anche solo al cosiddetto “Processone” tra il 1981 e il 1982 e alle numerose sigle “combattenti” che hanno agitato il nostro territorio dal 1977 ai due, tre anni successivi.

Ci sono poi il mito della Resistenza tradita e della continuità con la lotta partigiana, i riferimenti ai Gruppi di Azione Patriottica di Giovanni Pesce, l’ideologia che diventa fanatismo, l’autocompiacimento eroico, l’ascetismo militante e paranoico, il fideismo rivoluzionario, l’illusione delle armi e dell’azione violenta come strumenti efficaci di controllo e modificazione della realtà, che si sovrappone all’illusione della coerenza, dell’uomo come monolite, della politica che viene prima dei sentimenti (quest’ultimo è stato forse il grande abbaglio di una generazione).

Sono tutti elementi che, pur trascurando lo stile e una ricerca linguistica, Bertante prova a inserire in modo quasi allegorico tra le pieghe di un personaggio, dentro un’assemblea studentesca, sul fondo di una riflessione sul padre o sul passato, nella panoramica sulle dinamiche di quartiere e di fabbrica. Ed è un lavoro certosino e riuscito, seppur (inevitabilmente?) parziale, incompleto: la ricerca storica è ampia e approfondita, c’è ma non si vede, lascia spazio all’immediatezza della narrativa pura e semplice. L’autore si rivolge dichiaratamente ai giovani, ai ventenni come Alberto. E il romanzo procede senza frizioni e limitando gli specialismi per farsi leggere senza richiedere sforzi. Le tesi storiografiche si risolvono in un dialogo, in un monologo introspettivo, nell’approfondimento psicologico di paure, speranze, frustrazioni, disillusioni, nelle valutazioni politiche personali.

Un romanzo che non sarà esaustivo, definitivo, ma rappresenta uno dei possibili attraverso cui fare divulgazione storica servendosi di strumenti narrativi, finzionali o ibridi – si pensi a Sebald, Cercas, Carrère, Mendelsohn, che comunque sono maestri e giocano in tutt’altro campionato. Certo è che resta ancora molto lavoro da fare, molte riflessioni sul metodo, e molte insidie – come spiega Enzo Traverso quando parla di «tirannide dell’Io» e di storiografia soggettivista – per chi voglia cimentarsi in questo ambito così contemporaneo.

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