«Depressione maggiore». Fa male, pare un pugno ben assestato, una sentenza senza possibilità d’appello, l’ingresso del labirinto. O forse no. Da queste due parole, si dipana la narrazione di «Disimparare la felicità», libro d’esordio del trentasettenne Marco Pezzetti, personal trainer e giornalista originario di Levate che vive a Lussemburgo. Pubblicato lo scorso ottobre da Ikonos Editore, è un viaggio autobiografico al di là dello specchio, un bollettino di un disagio, quello psicologico, che colpisce ogni anno un gran numero di persone ma che, per la nostra società, rimane ancora un forte tabù. In barba a qualsiasi tipo di ampollosità (e a qualsiasi tipo di ipocrisia), la scrittura di Pezzetti prorompe come una mitragliata: spoglia e chirurgica, si tiene ben lontano dal farsi terapia ma non lesina momenti carichi di humour, piccoli scorci luccicanti che tracciano un cammino ben preciso: quello della speranza oltre il dedalo.
FR: «Disimparare la felicità». Perché questo titolo?
MP: Il titolo è il cuore del mio libro, il cui contenuto si può proprio riassumere in queste poche parole. Del resto, descrive bene il mio stato d’animo, soprattutto quello di qualche anno fa, quando mi era davvero impossibile sentirmi felice. Adesso va un po’ meglio, ma la strada è ancora lunga. Tengo a dire che l’incapacità di provare felicità non ha nulla a che fare con la tristezza o con la malinconia. Piuttosto, è qualcosa che ha a che fare con un profondo senso di vuoto, con la consapevolezza di non avere più gli strumenti per raggiungere uno stato di benessere perduto. Una mancanza lacerante.
FR: Nel libro, i sintomi della depressione sono descritti con precisione quasi chirurgica. La scrittura è spoglia ma, proprio per questo, evocativa e impietosa: pare voler prendere a schiaffi il lettore.
MP: È la mia scrittura, una scrittura asciutta ed essenziale, che vuole proprio suggerire la mancanza di fiato, se così si può dire, ovvero senso di sfinimento e di oppressione. Per il resto, mi piace molto rileggermi, anche perché sono un fanatico dello stile: odio le ripetizioni, amo il ritmo e le frasi brevi. Se mancano questi elementi (o se non mi soddisfano) non lesino modifiche.
FR: A pagina 17, si legge: «Non riesco più a godere del silenzio. Anzi, ne sono terrorizzato. Talvolta, ancor prima di togliermi giacca e scarpe, metto una canzone, un podcast o un video a caso; per poi fare tutt’altro: l’importante è che ci sia un brusio di sottofondo che cancelli le impronte della solitudine». È terribile.
MP: Fortunatamente, svolgo un lavoro che mi permette di incontrare diverse persone, di intrattenere e di essere intrattenuto. Quando però si torna a casa e la casa è vuota, le luci si spengono: ci si sente ancor più soli e quello che, con tanta fatica, si è riusciti ad arginare durante la giornata, riaffiora ancor più violentemente. Il malessere emerge, aumenta e ti sbrana. L’incapacità di affrontare una situazione del genere spinge verso l’evitamento e la distrazione: qualunque cosa va bene, purché il brusio della realtà esterna possa soffocare le voci che provengono dal profondo dell’anima (e della mente).
FR: «Lessi ancora quel “caso depressivo maggiore” in neretto qualche millimetro sotto i miei dati anagrafici. Da quel momento, sarei stato anche quello», si dice a pagina 15. Una frase molto forte.
MP: È stato difficile accettare quel responso, ma è stato anche liberatorio. Per anni, dentro di me, ho sentito qualcosa che non andava e finalmente qualcuno era riuscito a dare forma concreta a questa mia sensazione, a spiegarmi una parte di me. È vero: noi non siamo la nostra malattia e i nostri problemi, eppure, d’ora in poi, sarei stato conscio che le mie decisioni sarebbero state determinate anche da quel disagio che mi affliggeva.
FR: A pagina 14, si parla dell’importanza di trovare un dottore che, oltre a essere competente, sappia anche ascoltare senza giudicare. Insomma, uno specialista che sappia essere anche un po’ empatico.
MP: Quando si vive un disagio psicologico, credo sia fondamentale trovare un professionista valido che sappia accogliere, ascoltare e comprendere il paziente in maniera libera e aperta. Dopo anni di sofferenza, avevo finalmente di fronte una persona che, sin da subito, aveva capito come in me ci fosse qualcosa di rotto. Non solo attraverso la sua scienza, ma anche attraverso il suo calore umano mi sono deciso a intraprendere un percorso di cura.
FR: Nel libro, si mette in guardia i lettori dai guru spirituali che, come antidoto contro la depressione, sciorinano metodi e pratiche sensazionalistiche.
MP: Non voglio insegnare niente a nessuno, ognuno ha le proprie esperienze. Ma mi infastidiscono molto i discorsi americaneggianti, se così li si può chiamare: podcast che ti insegnano come gestire la tua giornata per arrivare a chissà quale livello mentale o, peggio, che riducono tutto alla meditazione o, per meglio dire, alla banalizzazione di quest’ultima. Questi specie di “santoni” non capiscono (o fanno finta di non capire) che la depressione non è un semplice periodo di sconforto. I loro consigli, almeno per quanto mi riguarda, sono poco più di una pacca sulle spalle.
FR: «Capii il suo disagio, e provai compassione: mi domandai più volte cosa gli passasse per la testa e cosa gli impedisse di avere un’esistenza felice. Fui quasi sul punto di mettere sul tavolo la mia esperienza, ma mi trattenni», c’è scritto a pagina 70. La propria vulnerabilità fa luce sulla vulnerabilità degli altri?
MP: Dopo la pubblicazione del libro, diverse persone mi hanno scritto. Mi hanno ringraziato, mi hanno detto che anche loro soffrono o che, in passato, hanno attraversato un brutto momento o che, attualmente, combattono contro depressione, ansia o crisi di panico. Non solo amici, anche gente che non sentivo da decenni, ex compagni delle elementari, sconosciuti: a livello emotivo, questo testo ha mosso qualcosa in loro. Forse, tutto ciò, era proprio la finalità del mio libro: parlare liberamente del disagio psicologico, affermare che esso può toccare tutti, che non per questo non si è normali e che non si è mai del tutto soli: basta chiedere aiuto. Sicuramente, il mio dolore mi permette di avere uno sguardo diverso sulla realtà e una maggior sensibilità.
FR: All’interno di tutto questo inferno, parafrasando Italo Calvino, c’è anche spazio per ciò che inferno non è, come, per esempio, quando, leggendo un bugiardino, sorridi per la semplicità disarmante con cui definisce la depressione (pagina 58). Un piccolo momento epifanico.
MP: Sì, ci sono momenti così. Non è sempre tutto buio. Nel caso del bugiardino, mi ero sentito piacevolmente sorpreso nel riscontrare che i sintomi descritti mi appartenevano (e che quindi non erano solo miei): mi sono sentito meno solo e più libero; ho capito che avrei potuto curare la depressione o, nella peggiore delle ipotesi, che avrei potuto tenerla a bada.
FR: E poi c’è la parola, di cui si avverte la forza e l’importanza.
MP: Sì, la parola mi ha accompagnato in questa brutta esperienza e tutt’ora continua a farlo. Sia ben chiaro, però: io non ho scritto questo libro per fare terapia. Per me scrivere non significa fare ricerca su me stesso. Ho composto questo testo perché avevo qualcosa da dire, qualcosa in testa che, da tempo, mi assillava e a cui volevo dare una forma. L’unica parola per me salvifica è quella orale, non quella scritta: sciogliere le proprie rigidità caratteriali e lasciarsi andare con lo psichiatra, lo psicologo, i familiari, gli amici, la persona amata. Soprattutto noi uomini, spesso, teniamo tutto dentro e alla fine implodiamo. Parlare, possibilmente in maniera costante, permette di affrontare meglio la vita.
FR: Un percorso, quello descritto nel libro, che, nel finale, lascia spazio alla speranza (oltre che a un gran desiderio di semplicità, pace e spensieratezza).
MP: Sono ancora in cammino, ma mi sento più sereno: ho fatto grandi passi avanti, sono cambiato. Ho ricominciato a vivere, in maniera più leggera e con un pizzico di sano egoismo in più. Come sarà il domani? Non lo so. Aspiro a una vita semplice e soprattutto lenta. L’importante è fare un passo alla volta, senza voltarsi e senza fermarsi.
