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I morti non muoiono: Antonio Scurati e “M l’uomo della provvidenza”

Articolo. Questa sera, alle 21, in streaming per Molte fedi sotto lo stesso cielo lo scrittore napoletano parlerà del secondo volume della saga che ha come protagonista Benito Mussolini. Fra aneddoti, documenti, finzione verosimile, storie e Storia

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Benito Mussolini

È la mattina del 10 giugno del 2009 quando Muammar Gheddafi sta scendendo la scaletta dell’aereo appena atterrato all’aeroporto di Ciampino. È in alta uniforme, dal cappello piovono gli iconici ricci bruni, si intuisce il suo classico occhiale da sole d’ordinanza. Scende qualche gradino e poi indugia aggrappato al corrimano, si volta verso il portellone aperto, come ad aspettare qualcuno dietro di lui. E in effetti qualcuno c’è. È un vecchio in tunica bianca, c’è chi lo aiuta a camminare. Quel vecchio è Mohammed Al-Mukhtàr, figlio e ultimo erede di Omar Al-Mukhtàr, il leggendario capo senussita della resistenza anticoloniale libica.

Appuntata al petto di Gheddafi c’è una fotografia, un piccolo quadretto in bianco e nero. Ritrae Omar Al-Mukhtàr nel settembre del 1931. Veste una tunica bianca, è incatenato mani e piedi, circondato da un gruppo di militari italiani evidentemente soddisfatti. Morirà poco dopo lo scatto – ore, giorni, poco importa – giustiziato da traditore, per impiccagione, dopo un processo-farsa in cui non gli è riconosciuto lo status di prigioniero di guerra. Gheddafi dirà che la foto di Mukhtàr è per loro “come la croce per i cristiani”.

Il padre al petto. Il figlio al seguito. Branditi nella provocazione di chi solleva il tappeto e soffia via cespugli di polvere. Il corpo morto di un pezzo di storia italiana che torna a camminare tra i vivi in diretta tv. Insieme a Gheddafi – in visita in Italia su invito di Silvio Berlusconi – quel giorno dall’aereo scende il fantasma di un rapporto irrisolto, quello tra l’Italia e il suo passato coloniale, sempreverde rimosso della nostra storia.

La sera successiva, Sky trasmette il film “Il leone del deserto” di Mustafa Akkad, un colossal del 1981 co-finanziato da Gheddafi sulla figura di Omar Al-Mukhtar e sulle principali vicende della “riconquista della Libia” intrapresa dal governo fascista negli anni Venti. È la prima volta che il film è trasmesso in Italia. Una censura ufficiosa durata ventotto anni ne ha limitato strenuamente la trasmissione pubblica e la distribuzione. “Danneggia l’onore dell’esercito” ebbe a dire Andreotti.

La figura di Al-Mukhtàr è una delle più brillanti in “M l’uomo della provvidenza”. Scurati si dedica a raccontare tanta parte della vicenda italiana in Libia (un bel corollario di porcherie) dal 1926 al 1932. Lo slancio all’inseguimento dell’ombra nera dei fasti romani, dalla Tripolitania verso le aree desertiche del Fezzan, fino ai rilievi della Cirenaica. Gli inganni, i soprusi, gli stupri, le deportazioni di massa, i campi di concentramento, le esecuzioni sommarie, le violazioni della Convenzione di Ginevra, l’uso di bombe a gas iprite, la distruzione di pascoli, coltivazioni, bestiame. E poi i guerrieri libici, combattenti mitici e fantasmatici che appaiono generati dalle polveri del deserto dentro cui poi scompaiono senza lasciare traccia. Dall’altro lato i criminali italiani, da ricordare: Pietro Badoglio, Emilio De Bono e soprattutto Rodolfo Graziani.

A tutte le comunicazioni scambiate sull’oggetto delle esecuzioni sommarie, preciso: 1) Modalità fucilazione, essendo impiccagione riservata ai giudizi del Tribunale. 2) Accertamento speditivo delle responsabilità senza alcuna riunione per costituzione del Tribunale di Guerra. 3) Procedimenti celerissimi senza lasciare inutilmente in vita per molti giorni soggetti pericolosi... Delittuosa ogni sentimentalità.

[Ordine del generale Rodolfo Graziani, diramato a tutti i reparti, 28 marzo 1928]

Scurati dà sostanza a quel fantasma. Una sostanza solida, vibrante, facilmente fruibile, lanciata a gran forza fuori dai recinti esclusivi e spesso autoreferenziali degli ambienti accademici e degli archivi. Una sostanza che si fa antidoto al mito virulento degli “italiani brava gente”, del presunto colonialismo dal volto umano. Basterebbe solo questo a fare del secondo volume di Scurati un altro esempio preziosissimo di storia che diventa public history che diventa narrativa che diventa “romanzo documentario”.

Eppure c’è molto altro. L’ulcera duodenale che nel 1925 rischia di uccidere Mussolini, la corporeità ostentata e animalesca del duce accanto all’aura mitica e provvidenziale che comincia ad ammantare la sua figura idealizzata, vuoi per una serie di attentati miracolosamente sventati, vuoi per aver definitivamente riconciliato i rapporti tra Stato e Vaticano con i Patti lateranensi dell’11 febbraio 1929.

E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale.

[Papa Pio IX, allocuzione ai professori e agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 13 febbraio 1929]

Poi la vita privata, i figli e le noie di una famiglia sempre più numerosa, gli sfoghi sulle amanti a pagamento definite “orinali di carne”, la ristrutturazione verticistica del Partito (“Il fascismo è soprattutto una fede”), la svolta statalista, le leggi fascistissime e il consolidamento della dittatura, lo stato di polizia allestito da Arturo Bocchini, il definitivo smantellamento dello Stato liberale e del Parlamento “con il tedio adeguato al disbrigo di una stanca routine”, il silenzio immobilista di Vittorio Emanuele III.

Notevole e rappresentativo del calibro di tutto il libro, il capitolo sull’ultimo discorso alla Camera dei Deputati di Giovanni Giolitti. Si vota la riforma costituzionale del sistema elettorale che permette all’elettore di esprimersi su una lista unica (fascista) con un “sì” o con un “no”:

(...) la seduta che approverà la definitiva mortificazione del Parlamento scivola via senza intoppi, senza la minima increspatura che segnali ai cronisti una presenza di vita, fosse anche subacquea. Poi, però, Giovanni Giolitti chiede di parlare. Improvvisamente il silenzio si aggrava, scende di un’ottava, si fa pesante. Giolitti è uno di quegli uomini che battezza con il proprio nome un’intera epoca. Siede in Parlamento da quarantasei anni e tredici legislature, è stato sette volte ministro e cinque volte presidente del Consiglio, la prima nel milleottocentonovantadue quando Benito Mussolini ancora frequentava la scuola elementare. Con Giolitti, nel suo imponente metro e novanta di altezza, si alza a parlare lo Stato liberale, il parziale, faticoso, contraddittorio tentativo di trasformare un Paese antico e arcaico in una democrazia moderna.

Insomma, anche in “M l’uomo della provvidenza” affiorano chiaramente i contorni di un lavoro mastodontico e straordinario – che rispetto a “M il figlio del secolo” pare ancor più calibrato e acuminato – di scavo, ricerca, elaborazione, organizzazione di eventi e personaggi attraverso le più diverse e curiose fonti documentali (lettere private, dispacci, telegrammi, memoriali, diari, discorsi pubblici, atti parlamentari, articoli di giornale, verbali, rapporti ufficiali, intercettazioni telefoniche). Fonti che Scurati romanza con un pathos che certo non manca di essere fine a sé stesso (è un male?) ma che funziona anche a restituire lo spirito del tempo e, indirettamente, un contesto di riferimento di cui le storie dei singoli hanno bisogno per poter raccontare con credibilità la Storia collettiva.

Ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da più di una fonte. Detto ciò, resta pur vero che la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non arbitraria, però” scriveva Scurati in apertura di “M il figlio del secolo”.

La commistione tra una “assoluta fedeltà alle fonti”, la totale veridicità di “ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo” e il piglio narrativo-romanzesco è ciò che rende tutto tridimensionale, cangiante, capace di irradiare quello spirito del tempo con molta più potenza di un classico saggio storiografico. Certe drammatizzazioni non possono che essere posticce e non mancano caratterizzazioni, soprattutto psicologiche, fatte di dettagli ipotetici, congetturali, eppure logici e verosimili.

Del resto, il racconto della realtà è sempre una ricostruzione, un montaggio: parziale, incompleto, esclusivo. Si entra in un campo in cui per essere il più fedele possibile è necessario anche un po’ tradire. Lo stesso Pier Paolo Pasolini, citato in apertura di “M il figlio del secolo”, parlava proprio del montaggio (cinematografico, nel suo caso) come strumento autoriale (quindi parziale, selettivo) attraverso cui esprimere la dimensione più rappresentativa della realtà.

In “M l’uomo della provvidenza” Scurati premette che “l’autore, governato dalle esigenze del racconto, si è concesso l’arbitrio di minimi sfasamenti temporali, nonché di qualche altra minuscola libera invenzione, a patto che in nulla mutassero la sostanza dell’epoca e degli uomini che ne furono i protagonisti. In quanti casi? Diciamo non più delle dita della mano che regge la penna”. “Il tempo” conclude, “si umanizza soltanto entrando in un racconto. Veritiero ma pur sempre un racconto”.

Un po’ come Hemingway che, scrivendo del suo unico incontro con Mussolini, riferì – probabilmente mentendo – di averlo visto “leggere” un libro che in realtà era capovolto. Un’impostura in grado di raccontare del vero. E che, col senno di poi, finisce addirittura per avere qualcosa di profetico.

Sito Molte fedi sotto lo stesso cielo

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