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Come sono riusciti i Pinguini Tattici Nucleari a colonizzare il mainstream

Articolo. Dalle canzoni di chiesa alla semifinale di X-Factor, passando per Sanremo e l’airplaying radiofonico. Con una capacità di scrive pop songs rotonde e trasversali che in pochi oggi hanno

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Pinguini Tattici Nucleari (Mattia Guolo)

Partiamo da una verità oggettiva: piacciano o non piacciano, è oggettivo che i Pinguini Tattici Nucleari rappresentino insieme ai Verdena – con tutte le differenze del caso – il gruppo bergamasco che ha raggiunto i migliori risultati possibili in termini di ascolti ed esposizione. La loro è una parabola che li ha portati dal suonare cover di canzoni di chiesa riarrangiate in chiave Metal nello sgabuzzino dell’oratorio ieri, all’essere ospiti della semifinale di X-Factor 2020 oggi (anzi, due settimane fa). Mica male. È qualcosa che andrebbe studiato da chiunque volesse fare della musica la propria carriera, a prescindere da tutto. Come ci sono riusciti?

Ecco un altro assunto, doveroso nel caso in cui – come è successo per molti (un esempio su tutti: Lo Stato Sociale) – li abbiate conosciuti per la prima volta grazie alla scorsa partecipazione al Festival di Sanremo: certo, “Ringo Star” è una canzonetta, pensata e costruita per essere un tormentone pronto a spopolare in radio (e su Spotify); tuttavia, i ragazzi di musica ne capiscono eccome: per accorgersene basta sentire Riccardo Zanotti in una qualsiasi intervista, o ascoltarlo strimpellare una chitarra acustica. Con questo cosa vogliamo dire? Semplicemente la cosa più ovvia del mondo: anche per fare pop da classifica ci vuole bravura, e chi ci riesce è spesso perché vanta una padronanza tecnica del mezzo (la musica e la forma-canzone) di primo livello. Per fare un esempio anacronistico, prendiamo Alex Britti, “manico” eccezionale alla chitarra prestato al teen-pop più innocuo, o un gruppo come Elio e le storie tese, prima di tutto dei musicisti prog di prima scelta.

Ora, con diversi dischi di platino appesi in bacheca, quella dei Pinguini è una storia che si presta perfettamente a una delle narrazioni più amate e abusate dai fan di qualsiasi cosa: quella del “i primi dischi spaccavano, poi si sono venduti”. Cosa assolutamente vera, perché è innegabile che nel corso degli album la loro proposta si sia progressivamente arrotondata, aderendo il più possibile a un gusto da heavy-rotation. Ascoltiamo un pezzo degli inizi come potrebbe essere “Il paradiso degli orsi gay”, e mettiamolo a confronto con la recente “La storia infinita” qualsiasi: il gap – di contenuti, arrangiamenti, insomma tutto – che intercorre tra le due canzoni esaurisce da solo qualsiasi dubbio in merito. E va benissimo così.

Al di là di qualche affezionato più intransigente (che ci sta), i PTN sono comunque riusciti nel corso della loro scalata al successo a non alienarsi il grosso dei loro sostenitori della prima ora. Questo perché possono vantare una fanbase di vecchia data molto solida, costruita e affezionata con grande maestria nel corso degli anni e dei dischi. Per capire come questo sia stato possibile occorre entrare un pochino all’interno della loro musica. Fin da subito Zanotti e compagni sono stati bravi a frullare insieme un po’ di tutto, saltellando da un genere all’altro senza soluzione di continuità. Sempre facendo pop, è chiaro, perché quello fanno e quello hanno sempre fatto.

Tuttavia una delle loro peculiarità è riuscire a infilare di pezzo in pezzo cose tra le più trasversali, sempre assimilate dopo essere stato filtrate dalla loro lente. Una lente che potremmo chiamare indie, volendo. Ma non vogliamo, perché è un termine oggi talmente inflazionato da aver perso ogni significato e che viene rigettato dagli stessi Pinguini. In effetti è praticamente impossibile ricordare un gruppo indie che negli ultimi anni abbia dichiarato di praticare il genere senza rigettare questa sedicente definizione. È ovvio che oggi i PTN di indie non abbiano assolutamente nulla, se non un approccio alla scrittura che può ricordare per diversi aspetti gruppi omologhi (anche qui, con tutti i distingui del caso) come i già citati Lo Stato Sociale e compagnia.

Quando si parla di indie, l’altro riferimento che sempre rispunta è il cantautorato. I Pinguini fanno cantautorato (o soprattutto lo facevano) a modo loro, nel senso che spesso da lì partono ma finiscono spesso nel realizzarne una parodia, o un’imitazione sghemba. Succede quando rifanno De André – letteralmente come in “Fiume Sand Creek” o ruminandolo come in “La ballata di Bracco Baldo” – o quando vanno a giocare su un versante più surreale e ironico. Ad esempio in un brano degli esordi dal titolo estremamente evocativo come “Giovanni Muciaccia orribilmente mutilato con le forbici dalla punta arrotondata”, affrontavano di petto uno dei più grandi shock subiti dai figli degli anni Novanta: scoprire che era Neil-il-grande-artista (e non Muciaccia) il proprietario delle mani inquadrate nei close-up durante i lavoretti di bricolage. Un effetto Mandela che ha sconvolto un’intera generazione.

Ma torniamo ai dischi: l’esordio vero e proprio “Il Re è nudo” gioca subito le carte giuste per corteggiare il suo pubblico di riferimento: “Italia Italia” è un pezzo fondamentalmente qualunquista ma riuscito nel suo sciorinare i luoghi comuni di un’Italietta per sempre schiava del berlusconismo, con addirittura qualche improbabile parentesi prog (?). Poi ci sono le citazioni colte giuste in “Test d’Ingresso di Medicina”, dove si mandano bacini a Orson Wells e al Dogma 95. E poi le impersonificazioni vegetali a tema esistenziale nel waltzer di “Jack il melo drammatico”, i ritmi in levare di “Ilaria”, prima di tante protagoniste femminili, a esplicitare uno dei tanti insospettabili amori di Zanotti (il reggae, appunto).

Diamo un calcio all’aldilà” alza ulteriormente il tiro, esagerando nei pastiche improbabili. Ascoltiamo campionamenti dementi abbastanza risaputi, tipo nel rock generico di “Castagne Genge” con Antonella Clerici che dice “la borra”. Oppure in “Django”, dove si prende un ritmo terzinato e lo si porta sulla riviera romagnola, spalmandoci sopra la melodia di “Tanti auguri a te”, e cantandoci sopra in inglese. Sono Frankenstein stilistici che possono divertire o lasciare perplessi, a voi la scelta. E poi improbabili travestimenti da hard rockers in “Sudowoodo”, casse dritte al servizio di funk slavati (“Rodger”), oppure ancora abitini da cosplayer di un Bob Marley di plastica nel reggae di “We Want Marò Back”.

Il meglio arriva probabilmente con “Gioventù brucata”: chitarre a spadroneggiare (dall’hard-funk di “Sciare” al rock della titletrack) e rapsodie dementi come in “Ninnananna per genitori disattenti”. Canzoni pop che sono Canzoni con la c maiuscola come “Irene” e testi che potrebbero essere poesie di Stefano Benni (“L’uomo che inventò il fuoco”). Ma se qui c’è il meglio, la svolta definitiva è “Fuori dall’hype” nel 2019. Siamo alla vigilia della partecipazione a Sanremo, e il disco è un crocevia dove convivono entrambi gli estremi alla portata del gruppo.

Un pezzo come “Lake Washington Boulevard”, che nelle intenzioni prende la parabola di Kurt Cobain e la trapianta nella provincia italiana, è anzitutto una bella canzone. Per goderla al meglio occorre lasciare da parte l’arrangiamento risaputo che troviamo su disco, tra fanfare stantie e assoli di chitarra vetustamente demodè, e gustarla in veste acustica. Il contraltare è l’innocua leggerezza di un singolino estivo come “La Banalità del Mare”, che chiama Hannah Arendt (non solo nel nome) e la porta a sculettare sotto il sole di Riccione. Musicalmente siamo davanti a un incubo che prende Sandy Marton e gli fa cantare qualcosa partorito da un generatore automatico di pezzi di Max Pezzali. Poi c’è una titletrack che è per i Pinguini esattamente quello che “Sold Out” è per i Thegiornalisti: un inno da stadio con velleità generazionali. È il link che possiamo condividere al volo su Facebook, vagamente malinconico e immediatamente dimenticabile.

Dopo il bagno di folla presentato da Amadeus, è giusto e naturale cavalcare l’onda: così in questo infausto 2020 arriva “Ahia”, ep che declina definitivamente una proposta che è ormai tagliata su misura per piacere potenzialmente a chiunque. C’è “Bohemien”, che sembra un pezzo degli Ex-Otago scritto per essere remixato da Carl Brave, e c’è il bagno di nostalgia 80’s per gli amanti di Stranger Things La storia infinita”. Si guarda a Bon Iver (“Scooby Doo”) e si affoga in bozzetti adolescenziali fuori tempo massimo (“Scrivile Scemo”). Poi si va ospiti a X-Factor, si tirano due stonate importanti senza farsi troppi problemi e ci si diverte il giusto. Questo è il gioco che hanno scelto, ora ammiriamoli giocare.

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