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Inti-Illimani, quando la memoria è un atto doveroso

Articolo. Il 17 settembre alle 21 il gruppo cileno sarà al Teatro Serassi di Villa d’Almè, ospite dell’edizione 2023 di «Molte Fedi sotto lo stesso cielo». Un concerto storico per non dimenticare il golpe di Pinochet di 50 anni fa

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Ambasciatori del patrimonio musicale latinoamericano e della world music, la musica degli Inti-Illimani è da sempre simbolo di lotta contro le dittature, di impegno civile, decolonizzazione e spirito di comunità. Due giorni fa è ricorso il cinquantesimo infausto anniversario del colpo di stato cileno che aprì l’epoca delle dittature nell’America Latina. Il regime di Augusto Pinochet è noto per essere stato uno dei regimi militari più autoritari e repressivi dell’America Latina nel XX secolo: non che possa esistere un regime senza queste caratteristiche, ma quello di Pinochet si è contraddistinto per ferocia. L’11 settembre 1973, il Generale guidò il colpo di stato contro il presidente Salvador Allende, ucciso durante il bombardamento al palazzo presidenziale di Santiago. Questo mise fine a un governo socialista democraticamente eletto.

La dittatura militare durò dal 1973 al 1990. Il Cile subì ampia repressione e verso migliaia di detenuti politici si verificarono gravi violazioni dei diritti umani. La «Carovana della Morte» e il «Centro di detenzione e tortura di Villa Grimaldi» sono diventati simboli di abusi sistematici contro prigionieri. A seguito di pressioni internazionali e crescenti proteste interne, Pinochet accettò un referendum nel 1988, che portò alla fine del suo regime. Nel 1990, Patricio Aylwin divenne il primo presidente democraticamente eletto dopo la fine della dittatura di Pinochet. La memoria storica e il dibattito sull’eredità politica del dittatore sono ancora vivi in Cile oggi.

Gli Inti-Illimani, costituitisi come gruppo nel 1967, sono tra i tanti artisti e intellettuali cileni che hanno subito la censura e la persecuzione durante il regime a causa delle posizioni politiche e della musica che esprime un impegno sociale e politico. Il gruppo fu costretto a lasciare il Cile e trascorse diversi anni in esilio, principalmente in Europa, dove continuò a esibirsi e ad attirare l’attenzione internazionale sulla situazione politica nel paese d’origine.

Il gruppo è noto per la musica impegnata e per aver contribuito alla diffusione della cultura, della storia e della coscienza politica cilena durante gli anni feroci di Pinochet. Nel corso del tempo ci sono stati cambiamenti nella formazione, ma gli Inti-Illimani hanno continuato a mantenere la loro identità musicale distintiva. Nel 2004, dopo la fine del regime, il gruppo decise di tornare in Cile, segnando una nuova fase della carriera. Da allora, ha continuato a registrare album e a esibirsi in tutto il mondo, portando avanti la missione di diffondere la musica e la cultura latinoamericana.

A raccontarci questi cinquant’anni c’è Eduardo Carrasco, nato a Santiago del Cile nel 1954, che vive e lavora in Italia dal 1974, anno in cui è arrivato come rifugiato. Carrasco è muralista, fondatore della Brigada Ramona Parra (gruppo muralista cileno), ha scritto «Inti-Illimani. Storia e mito» e ha da poco pubblicato il diario «Cile Italia solo andata. Storia di un profugo cileno». Da sempre è rappresentante in Italia del gruppo Inti-Illimani, con cui condivide il palco insieme alle sue opere.

CD: Cinquant’anni da quel giorno, come si ricordano?

EC: Anche se sono passati tutti questi anni, c’è l’impressione, il sentimento, che non ne siano passati poi così tanti. Il colpo di stato in Cile ha cambiato la vita di tutti noi. In quei giorni il gruppo era in Europa per una tournée, io ero in Cile. In un giorno abbiamo visto scomparire i tre anni più belli della nostra vita, quelli del governo di Salvador Allende. Spariti i sogni e distrutta la speranza di un mondo diverso, migliore per tutti. È questo che fanno le dittature: disumanizzano. I libri, la musica, la pittura, sono strumenti per ricordare alle nuove e anche alle vecchie generazioni tutto quello che è stato vissuto in questi cinquant’anni di storia.

CD: Che ruolo hanno avuto per voi l’arte e la musica nella lotta politica?

EC: Nel breve periodo del governo Allende arte, musica, cultura generale erano le basi e avevano un ruolo fondamentale nella politica. All’epoca, gli Inti-Illimani vennero assunti direttamente dall’università statale perché potessero dedicarsi interamente al progetto di ricerca musicale. Dal golpe in poi, sia da esuli in Europa che al ritorno in Cile, il gruppo ha sempre rappresentato la voce del popolo, dei quartieri, di tutti. Lo stesso vale per l’arte muralista, che si basa su condivisione, partecipazione, collettività. La conferma è che ancora oggi, a Santiago, gli Inti-Illimani riempiono piazze immense. Vanno di pari passo: che gli strumenti siano voci o pennelli e colori, servono a rivendicare diritti ed esprimere bisogni.

CD: A proposito dell’arte muralista, c’è un episodio che in Italia è stato particolarmente ricordato: l’enorme murale realizzato all’arena di Verona dedicato al musicista Victor Jara, torturato e assassinato dai militari di Pinochet.

EC: Quel concerto è rimasto nella storia, è memoria storica di tutti noi, c’erano ventimila persone. Noi che eravamo sul palcoscenico abbiamo sentito la responsabilità verso il pubblico italiano, verso il popolo cileno, ma anche verso chiunque, di portare avanti una lotta. Attraverso le canzoni, i colori, la nostra voce rappresentava un chiaro messaggio contro la dittatura.

CD: Con la fine della dittatura i componenti del gruppo sono rientrati in Cile. Come è stato tornare là?

EC: Tieni conto che ad aspettarli, proprio all’arrivo in aeroporto, c’erano migliaia di persone. Il primo concerto fatto in Cile, subito dopo la caduta del regime, è stato improvvisato sul cassone di un camion. Per riuscire a spostarsi dall’aeroporto al luogo in cui dovevano arrivare per il concerto vero e proprio ci sono volute ore perché la strada era completamente bloccata dalle persone.

CD: Come era il Cile post Pinochet?

EC: Tornai la prima volta con una troupe RAI per girare un documentario, abbiamo attraversato il paese in lungo e in largo. Quello che ho ritrovato era un paese completamente diverso da quello in cui ero cresciuto e, soprattutto, da quello che avevo sognato. C’è un libro che fa riferimento a questa sensazione, un romanzo di Isabelle Allende, «Il mio paese inventato», che spiega bene come noi esuli, in tutti gli anni di lotte a distanza, abbiamo finito per immaginarci un paese diverso. Quello che ho ritrovato era diverso sia dal punto architettonico che sociale. Ricordo che mi colpì lo sguardo basso delle persone per strada, un forte timore diffuso nel relazionarsi agli altri. Tutto era ricoperto da uno strato di paura, il risultato di anni di dittatura.

CD: Per le generazioni che in quegli anni erano giovani, o adulte, il vostro messaggio era attualità. Oggi è possibile che i più giovani non conoscano la storia del Régimen Militar.

EC: Certamente c’è una differenza numerica rispetto al pubblico di quegli anni, ma il calore, quello non è affatto cambiato. Le lotte non vanno mai dimenticate e sono senza tempo. I testi delle canzoni parlano di speranze universali. Quello che ho scritto nel mio libro, ci ho messo cinquant’anni a raccoglierlo, con la paura di non scrivere abbastanza bene, che il ricordo fosse troppo doloroso, con il rispetto di quello che le persone hanno vissuto, ma la memoria è un atto doveroso. Nelle ultime date, le più recenti, abbiamo incontrato davvero tanti giovani affezionati agli Inti-Illimani.

CD: Potrebbe essere la generazione dei figli, la seconda generazione del vostro pubblico, dico per esperienza personale.

EC: Sì, ho conosciuto persone a cui le mamme mettevano gli Inti-Illimani come ninnananna. Ma ci seguono anche i nipoti di quel pubblico dei decenni passati. È necessario continuare a diffondere il messaggio che un altro mondo, migliore di quello si ha, è possibile, per i vecchi anche, ma soprattutto per le nuove generazioni.

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