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#coseserie: «In nome del cielo». Mormoni, troppo mormoni

Articolo. La serie tv di Star, sulla piattaforma Disney+, racconta di un doppio omicidio all’interno della comunità americana dei seguaci del profeta Mormon. Una storia true-crime dove la fede diventa fanatismo e le preghiere armi. Ma alla fine vince (amaramente) la ragione

Lettura 4 min.
Jebediah Pyre (Andrew Garfield)

Nel 1887 Arthur Conan Doyle pubblicò una delle indagini di Sherlock Holmes sulla rivista Beeton’s Christmas Annual, un’avventura investigativa intitolata «Uno studio in rosso» («A study in scarlet»). Senza scendere troppo nei particolari, questo racconto – che venne pubblicato come libro l’anno successivo – narra di un delitto avvenuto all’interno della comunità dei mormoni. Da questa storia vennero tratti tre film (due nel 1914 e uno nel 1933), ma soprattutto – per gli appassionati di serie tv – deriva da questo libro il primo episodio della fortunata (e parecchio avvincente) serie «Sherlock», «Uno studio in rosa», con Benedict Cumberbatch, un mesmerico Holmes, che incontra per la prima volta Martin Freeman, nel ruolo di Watson.

Tutto questo per dire che di tanto in tanto la letteratura, il cinema e anche la serialità televisiva tornano a occuparsi del mondo dei mormoni. Per citare giusto qualche titolo, lo ha fatto di recente Tara Westover nel suo «L’educazione» (Feltrinelli, 2020), Ann Weisgarber in «Terra crudele» (Neri Pozza, 2019) e Jon Krakuer con «In nome del cielo. Una storia di fede violenta» (Corbaccio, 2003).

Del resto i mormoni sono una delle tante sette di origine cristiana degli Stati Uniti, ben lontana dal cristianesimo cattolico. Venne fondata nell’Ottocento da Joseph Smith, il quale affermò convintamente di aver ricevuto da Dio la rivelazione del «Libro di Mormon» scritto da Mormon, un profeta nefita (un popolo del Centro America le cui vicende sono narrate proprio dal libro) che visse nel IV secolo. Lo stesso Smith venne considerato come profeta dai suoi seguaci e la storia dei mormoni – che s’intreccia con quella dell’America dei nativi e con quella dei nascenti Stati Uniti – è parecchio lunga e complicata, com’è tutt’altro che immediato il “meccanismo” secondo cui il mormonismo (e il mormone) procede nella Storia: non per una originaria verità rivelata da Dio (com’è la Bibbia), ma per una serie di rivelazioni che ogni mormone può avere durante la sua esistenza e che continuano anche giorno per giorno, influenzando la vita degli adepti alla setta.

Per cui con un po’ di carisma e una buona capacità di (auto)convincimento una persona può persuadere una comunità mormone di aver fatto la più truce delle cose perché «Dio mi ha detto di farlo», oppure giustificare come volontà divina la poligamia, che si trova facilmente nelle branchie più estreme del mormonismo. Sia chiaro: i mormoni non sono tutti bigotti e poligami; la situazione per quanto riguarda i circa 15 milioni di fedeli alla «Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni» (la più numerosa delle chiese nate dalla rivelazione di Joseph Smith) è multiforme e sfaccettata. Per dire: sono mormoni il senatore repubblicano dello Utah Mitt Romney, la scrittrice di «Twilight» Stephenie Meyer e per chi ha buona memoria cestistica lo è anche Shawn Bradley (fra i Novanta e i Duemila nei Philadelphia 76ers, New Jersey Nets e Dallas Mavericks); senza dimenticare Alan Sparhawk e Mimi Parker dei Low, una delle più intense band americane dai Novanta ad oggi.

Insomma, i mormoni sono tra noi, nel vero senso della parola: il missionariato è uno dei compiti dei mormoni e può capitare per strada o su un treno di incontrare un gruppo di ragazzi (camicia bianca, pantalone scuro, targhetta con il nome) o di ragazze (gonnellona invece dei pantaloni) che svolgono il loro lavoro di placidi missionari mormoni. Nella società americana, poi, non sono necessariamente settari, anzi: secondo il volere di Dio, tendenzialmente i mormoni hanno un certo fiuto per gli affari, la carriera e il successo. Capita però che siano chiusi, abbraccino il fanatismo e al dialogo preferiscano le armi.

Come racconta Krakauer – che è anche l’autore di «Nelle terre estreme. Storia di una fuga dalla civiltà», da cui è stato tratto il film di Sean Penn «Into the Wild» – nel già citato «In nome del cielo». Da cui è stata tratta l’omonima serie tv (regia di David Mackenzie, già regista e sceneggiatore di «Outlaw King – Il re fuorilegge»), resa disponibile da Star sulla piattaforma Disney+ lo scorso 31 agosto. A dire il vero i titoli originali del libro e della serie («Under the Banner of Heaven») sono decisamente più evocativi. Ma il contenuto è quello: una storia true-crime ambientata in un sobborgo di Salt Lake Valley, in Utah (una delle zone a più alta densità mormonica), che vede protagonisti due detective. Uno si chiama Jebediah Pyre, per gli amici Jeb (l’attore Andrew Garfield, già Spider-Man), con moglie, figlie e mamma malata a carico, mormoni un po’ più che moderati (almeno ai nostri occhi). L’altro è Bill Taba, (interpretato da Gil Birmingham, chi ha occhio forse lo ricorda in «Eternals» della Premio Oscar Chloé Zhao), nativo paiute e collega di Jeb, un personaggio che starebbe bene in un libro di Cormac McCarthy: spirito d’arcigna razionalità, sembra non credere in niente, e invece non è così (ma andare oltre sarebbe spoiler).

La coppia deve indagare sull’omicidio efferato di Brenda Lafferty (Daisy Edgar-Jones) e della sua bambina di soli quindici mesi. Brenda è la neo-sposa di Allen Lafferty (Billy Howle), uno dei fratelli della famiglia Lafferty, una specie di famiglia Kennedy dello Utah, capeggiata dal potente padre che decide di accogliere in famiglia Brenda, nonostante sia decisamente diversa dalle altre (sottomesse) donne Lafferty. Vuole diventare una presentatrice di tg, è di vedute più aperte ma non troppo e soprattutto influenza con il suo pensiero le spose di Ron e Dan Lafferty, fratelli di Allen.

Da qui in poi si dipana la vicenda: «In nome del cielo» non è nulla di particolarmente rivoluzionario, una storia true-crime che alla fine avrà dei colpevoli, ma in sette puntate di poco meno di un’ora tiene attaccati allo schermo, confermando la bontà delle proposte Star (vi parlammo qualche mese fa di una serie bella e utile come «Dopesick»). L’omicidio di Brenda e della figlia nasce in un clima di estremismo, settarismo e familismo a dir poco nocivo. Brenda è troppo per i Lafferty, nonostante sia una persona sicura della propria fede e disposta ad accettarne le dinamiche per amore del suo Allen. I Lafferty, fra sentimenti anti-tasse e difficoltà economiche (siamo negli anni Ottanta reaganiani), rispondono ad un mondo che sembra rivoltarsi contro di loro con un sentimento di crescente radicalismo, in cui a farne le spese è la razionalità.

Ed è qui probabilmente il plus della serie: Jeb Pyre vacilla dinanzi ad un omicidio di due componenti innocenti della sua comunità e al sempre più probabile coinvolgimento di un qualche «fratello» mormone. Si macera interiormente e risponde ai dubbi con la preghiera, frutto di una fede pura, verrebbe da dire innocente, mentre il mondo intorno a lui sembra cadere a pezzi. Si può uccidere in nome di Dio – sembra quasi “scoprire” Jeb – e si fa presto a farlo quando Dio viene usato e del tutto travisato. Il collega Bill Taba cerca di tenerlo sulla strada del raziocinio; pur rispettando il suo credo, lo scuote e lo richiama al suo dovere. Che è quello di cercare una semplice verità terrena, anche se questa coinvolge una parte deviata del mondo mormone. Bill, invece, man mano che la narrazione procede è sempre più coinvolto dal caso. Il motivo, si scoprirà poi, risiede nei rapporti storici fra i mormoni originari e la sua discendenza paiute. I due colleghi, nel finale, dinanzi alla magnificenza delle montagne dello Utah rispondono in modo diverso al perché di tanta bellezza. E in fondo lo fanno per «Restare umani», come si dice in certi casi di fronte a tanta inumana brutalità che lascia un bel po’ di amarezza in bocca. Da vedere.

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