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#coseserie: «La legge di Lidia Poët», storia di un femminismo italiano (o quasi)

Articolo. Ha debuttato su Netflix lo scorso 15 febbraio la serie tv prodotta da Groenlandia che racconta la storia di Lidia Poët, la prima donna a entrare nell’albo degli avvocati – forse con qualche licenza di troppo

Lettura 6 min.
(Foto Netflix)

Cosa pensereste voi lettrici se vi dicessero che, fino a un secolo fa, guidare una bici era un privilegio riservato ai soli uomini? «La legge di Lidia Poët» è liberamente ispirata al personaggio storico da cui prende il nome. Una donna che lottò per più di trent’anni prima di poter esercitare la professione forense.

Lidia Poët, oltre ad essere la prima donna a essere iscritta all’albo, fu una pioniera delle battaglie per l’emancipazione femminile per l’introduzione del suffragio universale e tra i riformatori del diritto penitenziario. Prima di raccontarci la storia della prima avvocatessa iscritta all’albo, la serie ci mostra una città fiorente che sul finire dell’800 conta più di 200mila abitanti. La Torino bene è una Torino ricca e signorile, pettinata, impettita che ospita la famiglia reale e le feste in maschera.

Per una giovane donna dai sedici anni in su, la più grande aspirazione è partecipare al ballo delle debuttanti. Questi eventi pieni di sfarzi e finti sorrisi segnano l’ingresso ufficiale nella società, e della società riproducono fedelmente gli antipodi: da un lato ci sono gli uomini piacenti col loro patrimonio in bella vista, i loro sguardi, i loro commenti sarcastici. Dall’altro lato di questo grande convivio, invece, riecheggiano le risate stridule di giovani donne, figlie di ricchi magnati pronte a diventare angeli del focolare. Donne che covano la speranza di incappare nelle giuste mani: quelle di un uomo altrettanto ricco che nella migliore delle ipotesi sarà pronto a soddisfare tutti i loro capricci, mantenendo la promessa di una vita agiata. Nel mezzo, anzi, al di sotto, nei cunicoli, negli angoli delle strade, ci sono le prostitute, gli anarchici, le tangenti, l’abnegazione, le droghe.

È in questo marasma di contraddizioni e vizi che si innesta la storia di Lidia Poët, che vive in uno di questi sobborghi sommersi e improbabili dopo che una sentenza della Corte d’appello aveva rigettato nel 1883 la sua richiesta di iscrizione all’albo degli avvocati.

La sentenza specificava che la donna non poteva esercitare l’avvocatura. Sosteneva che la professione forense dovesse essere qualificata come un «ufficio pubblico», il che comportava una ovvia esclusione, dato che l’ammissione delle donne agli uffici pubblici doveva essere esplicitamente prevista dalla legge. Veniva inoltre sentenziato che «nella razza umana esistono diversità e disuguaglianze naturali» che il legislatore non poteva eliminare.

Inoltre, la sentenza conteneva anche argomentazioni che alimentavano stereotipi di genere, che giudicavano sconveniente per una donna discutere di argomenti imbarazzanti per fanciulle «oneste» perché avrebbero potuto indurre i giudici a favorire una «avvocata leggiadra» che certamente non avrebbe potuto indossare la toga al di sopra di quegli «abiti strani e bizzarri». Come se non bastasse l’esclusione veniva giustificata dalla sua indole e dalla sua naturale cagionevolezza, oltre che dalla carenza di adeguate forze intellettuali che avrebbero impedito alle donne di occuparsi di affari pubblici.

Nel presente della trasposizione cinematografica Lidia deve fare i conti, quindi, con l’impossibilità di svolgere il lavoro dei suoi sogni ma anche e soprattutto con gli sguardi indiscreti dei suoi colleghi avvocati e dei giudici e con l’affitto che non riesce più a pagare in conseguenza di quella sentenza ingiusta. A lei ch’era scappata dalla casa di un padre padrone che si era opposto fino alla morte alla sua scelta di intraprendere la professione di avvocato, non restava che ammettere il suo fallimento e far ritorno nei luoghi che l’avevano vista crescere e sperare. Ad accoglierla, lo sguardo severo disilluso dell’unico superstite rimasto, suo fratello, l’illustre e rispettato Avvocato Poët, che deve fare i conti con il vero padrone di casa: sua moglie, della quale è irrimediabilmente innamorato e succube.

La verità di Lidia Poët: una questione di sguardi

C’è un problema di fondo nelle trasposizioni mediali italiane o forse ancora prima nelle trasposizioni mediali in generale. Per definizione, queste trasposizioni realizzano contenuti mediali, usando una trama che generalmente riprende fatti realmente accaduti riadattandoli alle esigenze del medium, di quello che il pubblico si aspetta, di quello che al pubblico piace, dei tempi, per così dire, televisivi.

Non sorprende dunque che la serie si apra con una scena sessuale esplicita. Il corpo per la donna rappresenta il terreno della sua autodeterminazione – uno strumento per certi versi – attraverso il quale può rivendicare il suo potere ed esprimere quella libertà che le viene negata. Non sorprende, ma è anche riduttivo, soprattutto per le premesse e per la storia di cui si fa carico.

Lidia Poët è una donna sagace, giovane, perspicace, acculturata e tagliente, impersonificata da una Matilda De Angelis che anche al di fuori dello schermo incarna l’immagine della giovane attrice di talento che non ha paura di mostrare le sue imperfezioni e le sue fragilità. Tuttavia, c’è ancora paradossalmente da rintracciare in questa sessualità esplicita rivendicata dalla stessa protagonista Lidia Poët una sorta di ideologia ancora fortemente patriarcale che riproduce ancora oggi le proprie gerarchie, i propri orientamenti e le proprie fantasie in rappresentazioni visive che si connotano per una parvenza di neutralità.

Anche ne «La legge di Lidia Poet» è ancora lampante la presenza di due posizioni asimmetriche: la posizione attiva di chi guarda lo spettacolo – un pubblico concepito come prevalentemente maschile e come animato dalla ricerca di un piacere voyeuristico, il piacere di «guardare senza essere visto» e la posizione passiva di chi è parte dello spettacolo ed è guardato – quella di attrici donne che sono messe in scena esplicitamente come oggetti di un desiderio erotico maschile. La donna come immagine, l’uomo come portatore dello sguardo.

Come se non bastasse, nei contorni del dramma storico trovano anche spazio sfumature di romance , di un crime nel quale Lidia Poët riesce sempre a sfidare quelle leggi ingiuste per recarsi sulla scena del crimine e schierarsi dalla parte dei più fragili, degli emarginati, delle donne di strada che non avrebbero ottenuto neppure una difesa d’ufficio. Peccato che, ogni conquista venga puntualmente disintegrata da uno sguardo di rimprovero: quello di un padre che si opponeva agli studi in legge di Lidia prima, del fratello che giudica eccessiva l’intraprendenza della sorella che potrebbe tranquillamente aspirare a diventare una maestra, poi.

Il realismo nella finzione

A ben vedere sembra proprio che quello che pare l’elemento di forza della serie, o per meglio dire che ne assicura la riuscita in termini di visibilità e di seguito, rappresenti il suo tallone d’Achille. La protagonista viene infatti rappresentata come una donna disinibita, a tratti scurrile, imperiosa. Una figura cardine della storia italiana messa in posa sui lineamenti gentili e sul temperamento ancora ribelle e per certi versi puerile della De Angelis che beve whisky a tutte le ore del giorno e della notte (facevano così le donne che rivendicavano la propria libertà nell’800?). Sono questi dettagli che di fatto trasformano le conquiste di Poët nel capriccio di una piccola ereditiera decaduta.

Una nota positiva è invece rappresentata dalla scenografia e dai costumi che sembrano trovare il giusto compromesso tra il principio della verità storica e le esigenze di intrattenimento del medium televisivo.

La storia di Lidia Poët: un fine o un mezzo?

Volendo mettere per un attimo da parte la storia a cui si ispira, «La legge di Lidia Poët» non è altro che un procedural nel quale ogni micro-storia è un caso che la protagonista risolve mettendosi dalla parte del primo indiziato che ovviamente non corrisponderà mai al colpevole finale, puntualmente smascherato dalla Poet. Mentre la macro-storia è sempre quella di una donna che cerca continuamente di riscattarsi facendo i conti con un passato che torna a bussarle alla porta e che continua a trasformare il suo “gentil sesso” in una ferita pulsante, aperta, viva. Quel padre padrone che torna a far sentire la sua voce dall’aldilà. Lui che si era fermamente opposto alla scelta di proseguire gli studi in legge, era pronto a venderla in sposa ad un creditore pur di ripagare i suoi debiti da gioco. Chi era l’uomo del quale aveva desiderato da sempre l’approvazione?

È nello sguardo deluso, spaesato, di Lidia Poët che ritroviamo una verità, in quella sua solitudine di donna che si muove ostinata in un ambiente ostile che ritroviamo la nostra verità. Nostra e delle donne che ogni giorno vedono messe in discussione le loro competenze e la loro professionalità negli ambienti di lavoro. Donne che devono giustificare le loro scelte e hanno sempre e comunque tutto da dimostrare. La Lidia Poët della serie non è altro che una ragazza ribelle dei giorni nostri che scalpita e dice parolacce perché non ha scelta. La sua lingua è l’arma più tagliente e potente che ha a disposizione. In questo, la voce graffiante di Matilda De Angelis funziona bene.

Dopo sei puntate non so dire esattamente se l’esperimento sia riuscito: alla serie va comunque il merito di aver riportato alla luce il personaggio di Lidia Poët e la dignità di una donna che si batté per i diritti dei detenuti e dei minori, affrontando il complesso tema della funzione di rieducazione alla socialità del carcere.

Lidia Poët ottenne l’iscrizione all’albo all’età di 65 anni dopo aver esercitato per anni la professione forense insieme al fratello. Morì all’età di 94 anni, nubile. E noi come successori, come eredi diretti della sua eredità che è ancora viva, abbiamo il dovere di fare di più e di meglio che renderla appetibile ad uno sguardo o ad un pubblico pagante. Perdonaci Lidia, faremo meglio la prossima volta.

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