Prima che qualcuno chieda «ma dove erano finite queste?», la risposta è semplice: da gennaio a novembre ho consigliato cinque serie al mese, più o meno. E in mezzo a quel flusso, alcune delle cose migliori che ho visto durante l’anno non hanno trovato spazio, non per colpa loro, ma per colpa mia.
Questo articolo è la casa che non avevano: il raccoglitore dove sono rimaste quelle serie che non sono entrate nei pezzi mensili, ma che non potevo non raccontare.
E dicembre è il momento ideale per recuperarle: arrivano le vacanze, le cene di famiglia, i parenti che ti chiedono se hai trovato un fidanzato, qualcuno che ti chiede ancora che lavoro fai come se non te l’avesse chiesto a Pasqua. È l’occasione perfetta per chiudersi in camera e darsi al binge watching, sempre con moderazione, mi raccomando!
Platonic
Disponibile su Apple TV +
La nuova stagione di «Platonic» affonda nel territorio più sottovalutato e più complesso delle relazioni adulte: l’amicizia tra uomo e donna che non deve trasformarsi in altro, non deve giustificarsi, non vive di imbarazzi e non detti. Sylvia e Will (Seth Rogen e Rose Byrne) sono due adulti veri, cioè due adulti che non hanno la più pallida idea di cosa stanno facendo, ma continuano a provarci lo stesso. Lei, reduce da anni di compromessi familiari, tenta di ricostruire un’identità che non sia una somma di doveri. Lui, anima irrequieta travestita da imprenditore, passa da un progetto all’altro con la stessa energia disperata con cui un disoccupato cerca lavoro un lunedì mattina.
La trama li segue mentre tentano di recuperare la leggerezza che la società pretende da loro, ma che in realtà non concede mai. Attorno si muove un universo di adulti esausti che parlano solo per slogan: genitori che performano la perfezione come fosse un lavoro non pagato, colleghi che usano la psicologia come scusa per non assumersi responsabilità, amici che giudicano con la stessa naturalezza con cui ordinano un caffè. La serie li colpisce tutti con una precisione chirurgica.
E poi c’è la politica del quotidiano: «Platonic» smonta il mito tossico secondo cui a una certa età devi essere sistemato, ordinato, definito. Mostra la violenza silenziosa delle aspettative, la pressione di «fare la cosa giusta», l’ansia di risultare adulti anche quando non lo si è. E l’amicizia tra Sylvia e Will è un atto di resistenza: non vuole essere utile, non vuole essere terapeutica. E in un mondo che pretende di curare tutto, è già rivoluzionaria.
Black mirror
Disponibile su Netflix
La settima stagione abbandona del tutto l’ansia del futuro che potrebbe essere e affronta qualcosa di più scomodo: il presente come sistema socio-tecnico già corrotto, già manipolatorio, già costruito come un’interfaccia che ci guida e ci svuota. Non c’è bisogno di proiettarsi avanti: ciò che fa paura sta accadendo ora.
L’episodio più devastante è «Common People», con Rashida Jones e Chris O’Dowd. Amanda scopre di avere un tumore e la multinazionale Rivermind le propone una soluzione che sembra miracolosa. Durante l’operazione una parte della sua mente può essere “salvata”, protetta, preservata. Ma c’è un prezzo: un abbonamento mensile, che col tempo cresce. È l’orrore più riconoscibile della stagione, perché non c’è nessuna mostruosità futuristica, c’è la logica contemporanea degli abbonamenti che peggiorano mentre i costi aumentano, la trasformazione del corpo in un servizio a pagamento e la salute come piano tariffario.
In «Uss Callister – Il ritorno», la serie riprende la storia delle copie digitali imprigionate in un mondo a metà tra fantascienza e incubo pop. Nei panni digitali di Cristin Milioti, Jimmy Simpson e del clone di Jesse Plemons, i personaggi devono confrontarsi con la domanda fondamentale: una coscienza può cambiare davvero, oppure è destinata a ricadere negli stessi schemi tossici che ha interiorizzato dal proprio creatore?
Black Mirror ci mette davanti all’idea che il problema non è ciò che la tecnologia può fare, ma ciò che siamo disposti a tollerare pur di ottenere comodità, sicurezza, efficienza.
Il filo rosso della stagione è questo: il problema non è insito nella tecnologia, perché vero fardello dell’umanità è il sistema economico, politico e culturale che la utilizza. Ogni episodio mostra come bisogni, emozioni e ricordi diventano materia prima da monetizzare. Non è più il terrore della macchina che prende il controllo, ma il fatto che accettiamo spontaneamente un modello di vita che ci trasforma in utenti prima ancora che in persone.
L’arte della gioia
Disponibile su Sky e Now
Valeria Golino si ispira a Goliarda Sapienza e al suo romanzo omonimo, senza piegarsi alla sacralità del testo. La serie copre la prima parte del romanzo, concentrandosi sull’infanzia e sull’adolescenza di Modesta, e lo fa scavando nella materia grezza che ha forgiato una delle protagoniste più libere e scandalose della letteratura italiana.
Modesta nasce nel 1900 in una famiglia poverissima della campagna siciliana. La casa è un luogo violento, governato da un padre ottuso e aggressivo e da una madre schiacciata dalla miseria. L’infanzia di Modesta è un tirocinio alla brutalità: abusi, silenzi, fatalismo. Ma lei non si rassegna. È una bambina che capisce molto prima degli altri che la sottomissione è un destino al quale ci si può ribellare.
Dopo una tragedia che le segna la vita, Modesta viene accolta in un convento aristocratico. Qui, per la prima volta, vede da vicino ciò che le è sempre stato negato: libri, educazione e soprattutto il potere di scegliere. La sua mente si accende. Coltiva la lingua, la lettura, la capacità di muoversi negli interstizi di un mondo che non è il suo, ma che vuole far suo.
Quando entra nella villa dei Principi Brandiforti, il suo universo cambia ancora. Modesta diventa dama di compagnia, osserva l’aristocrazia dall’interno, ne impara i codici, ne intuisce le fragilità. Modesta vuole conoscere, vuole autonomia. E se il mondo non gliele concede, se le prende.
Golino non edulcora nulla: l’ascesa di Modesta è fatta di intelligenza, opportunismo, desiderio, errori e una fame che non chiede scusa. Tecla Insolia la incarna con una naturalezza spiazzante: è tenera e spietata, empatica e manipolatrice, infantile e lucidissima. Non un modello, non un simbolo, non un’eroina da venerare.
La serie manda all’aria la retorica della donna edificante. Modesta non deve essere un esempio. Rifiuta il ruolo, rifiuta il decoro, rifiuta la morale prestabilita e si limita a costruire se stessa.
Ed è proprio lì che «L’arte della gioia» fa il suo lavoro: nel mostrare una donna che non vuole essere decifrata, né addomesticata. Modesta non si offre allo spettatore: pretende di essere guardata per ciò che è, con tutte le contraddizioni che questo comporta. E Golino le concede esattamente questo spazio. In un atto che è di fedeltà e di libertà insieme.
Long story short
Disponibile su Netflix
Con «Long story short», Raphael Bob-Waksberg, l’autore che ha rivoluzionato l’animazione adulta con «BoJack horseman», torna su Netflix con una serie animata che conferma la sua sensibilità narrativa, ma sceglie un registro meno abrasivo e più intimo. Un cartone, sì, ma pensato per un pubblico adulto e abituato a confrontarsi con le contraddizioni del presente.
La serie segue le vicende di una famiglia allargata, raccontata a più voci e da prospettive diverse. Ogni episodio si concentra su un personaggio, restituendo un ritratto corale delle fragilità, dei conflitti e dei legami che compongono la vita adulta. È una struttura episodica che permette alla serie di scavare nell’ordinario: piccoli momenti, discussioni domestiche, scelte mancate, tentativi di riparazione.
L’animazione è semplice, quasi minimale e lavora controcorrente rispetto agli standard del mainstream. È un’estetica che dialoga con il racconto, perché toglie il superfluo e mette al centro ciò che davvero conta: la storia.
Bob-Waksberg alterna umorismo e malinconia con l’abilità che lo contraddistingue. La serie fa ridere, spesso di gusto, grazie a battute secche, situazioni paradossali e un senso del ritmo comico impeccabile. Ma dietro ad ogni risata si intravede una crepa: la paura del cambiamento, la pressione delle aspettative sociali, la fragilità dei rapporti familiari, l’ansia di definire chi siamo mentre il tempo corre più veloce di noi.
Il bersaglio privilegiato è la generazione Millennial, di cui Bob-Waksberg è una delle voci più riconoscibili. «Long Story Short» ritrae un mondo in cui i traguardi si spostano in continuazione, le promesse del passato sembrano irraggiungibili e la vulnerabilità è la condizione naturale con cui fare pace. Ma, pur affondando le radici nell’esperienza di una generazione, la serie parla a chiunque abbia avvertito la sensazione di non essere mai «arrivato». Una lunga storia breve, appunto.
High potential
Su Disney Plus
La serie è l’adattamento di «Morgane - Detective Geniale», fortunato prodotto franco-belga che in Italia ha conquistato Rai1 e che nel 2025 è già stata rinnovata con una seconda stagione.
Morgan Gillory, interpretata da una Kaitlin Olson finalmente libera di combinare lucidalabbra, fragilità e intuito sovrumano, resta la bussola emotiva e tonale di una serie che non smette di ricalibrarsi attorno a lei.
La premessa è nota: madre single di tre figli, un QI fuori norma e una compulsione implacabile a correggere il mondo, Morgan si è fatta strada da donna delle pulizie a consulente del Major crimes di Los Angeles grazie a un talento che è ben più di un dono: è un disturbo, una necessità fisiologica di trovare la logica nascosta nel caos. «High potential» ha costruito il suo successo su questa frizione, trasformando ogni caso in un teatro mentale dove la protagonista scompone, ricostruisce, ribalta prospettive. Le sue deduzioni diventano performance, con inserti visivi, spesso surreali e ricostruzioni immaginifiche che fanno del procedimento investigativo un piccolo spettacolo pop.
L’arrivo del Game maker costringe Morgan a misurarsi con un’intelligenza speculare, finalmente capace di giocare con le sue stesse armi. Il cast di supporto continua a essere un ingranaggio prezioso: Deniz Akdeniz e Daniel Sunjata trovano nuove sfumature nei loro personaggi, mentre l’arrivo di David Giuntoli aggiunge alla serie un antagonista inquietante e credibile.
«High potential» non tradisce la sua missione originaria nemmeno nella seconda stagione: raccontare cosa significhi vivere con un cervello che non si spegne mai. Morgan continua a essere brillante, sfrontata, vestita come se la sua vita fosse un carnevale permanente, ma anche vulnerabile, madre imperfetta e donna costretta a tenere insieme un’esistenza che le sfugge tra le dita proprio a causa del suo talento.
Buona visione e buon Natale!
