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Dalla Val Brembana a New York, «quel diavolo del Pianetti» torna in scena

Intervista. Più di cento anni dopo, le vicende di Simone Pianetti continuano ad affascinare: Robin Hood della bergamasca, pazzo omicida, imprenditore avanguardista, uomo di montagna, giustiziere inflessibile. Matilde Facheris e Alberto Salvi raccontano queste e altre sfaccettature ne «La Taverna del diavolo», l’11 agosto a Bonate Sotto per «A levar l’ombra da terra»

Lettura 4 min.
La taverna del diavolo (Gianni Fano)

Non era certo un uomo comune, Simone Pianetti, e questo a prescindere dai motivi per cui è diventato una leggenda e ancora oggi si evoca il suo nome in Val Brembana, parlando di qualcuno che minaccia di «fare come il Pianetti». Bastano pochi cenni sulla sua vita per intuirlo, pochi tratti che descrivono a grandi linee le sue peripezie: l’emigrazione a New York dalla Val Brembana a inizio secolo, il ritorno a casa dopo il tentativo di mettere su bottega fallito per il suo rifiuto di pagare il pizzo alla mafia locale, l’apertura di un locale-balera a Camerata Cornello, poi la costruzione di un innovativo mulino elettrico.

Il tutto, compiuto da un uomo sanguigno, iracondo, determinato e di impeto anarchico. Non poteva certo finire bene, e la fine della storia di Pianetti la conoscono tutti – per chi non la conosce, Alberto Salvi e Matilde Facheris la racconteranno sulle note della fisarmonica di Gino Zambelli, in un reading teatrale che sarà in scena l’11 agosto a Bonate Sotto, nel cortile della Biblioteca Comunale, per l’edizione 2022 di «A levar l’ombra da terra» (qui per prenotare).

Eppure, al di là della straordinarietà della sua storia, degna dei migliori thriller, ciò che può restare è la sua lotta senza tregua per portare avanti delle idee, contro ogni rigidità e limitazione imposta dai vincoli che sentiva addosso. Un capolavoro di coerenza, fino alla scelta estrema e di estrema – e ferocissima – libertà, rivendicata fino in fondo. Alberto Salvi racconta a Eppen come si è trovato immerso nelle vicende del Pianetti, insieme a Facheris, l’attrice sua complice in questo progetto.

LD: Una storia che ha davvero il sapore di leggenda. Come l’avete scoperta o riscoperta?

AS: La scoperta della storia risale a qualche anno fa, direi in modo del tutto casuale perché prima, devo ammetterlo, non avevo mai sentito parlare di Simone Pianetti. Me ne ha parlato un amico e ho deciso di leggere il libro che sarebbe poi diventato la fonte principale del nostro reading, «La Taverna del diavolo» di Roberto Trussardi. Man mano che conoscevo e scoprivo questa storia devo dire che, personalmente, me ne sono letteralmente innamorato. Pianetti è una figura che rientra ormai nel mondo della mitologia bergamasca. Nelle vicende della sua vita, per come sono arrivate ad oggi, c’è ormai tanto di mitizzato; molte cose che si raccontano si discostano dalla realtà, ombre e lati oscuri sono stati col tempo minimizzati per evidenziare le parti più interessanti o eclatanti. Insomma, ciò che accadde a Pianetti non appartiene più all’ambito della storia ma davvero, a quello del mito. Soprattutto considerando che lui non è mai più stato trovato, e nemmeno l’arma del delitto.

LD: Pianetti sparì letteralmente nel nulla. Difficile non ammirare questo talento da prestigiatore.

AS: Per me la sua storia, infatti, ha in parte una dimensione epica: un punto di vista che si può avere su di lui è di qualcuno che si è ribellato al potere costituito, certo, in modo incontrollato, dirompente ed estremo. Mi sono reso conto che c’era un bellissimo immaginario su cui lavorare in ambito teatrale. Roberto, peraltro, è stato molto bravo nel suo libro a evocare questa atmosfera affascinante legata al suo personaggio. Sono risonanze che arrivano intatte fino ai giorni nostri.

LD: Oggi si trovano molti materiali su questa storia?

AS: Negli ultimi anni sono state scritte parecchie cose. In particolare, un pronipote ha fatto un grossissimo lavoro di ricerca storiografica su Pianetti, colmando molte lacune sulla sua vicenda e dandone un’immagine sicuramente meno leggendaria. Pianetti mi ha aperto un tale immaginario che, da subito, ho pensato che sarebbe stato un progetto in evoluzione: partendo dal reading, che stiamo portando in giro da un po’, vorrei creare uno spettacolo. Ovviamente per ora questa fase è stata rallentata dal periodo pandemico, ma ho comunque alcune idee in ballo per il futuro. Durante il periodo di isolamento più rigido del Covid ho approfondito molto il mezzo del podcast e mi piacerebbe creare un podcast in serie, proprio su Pianetti.

LD: Da persona reale a leggenda, è facile categorizzare un uomo: Pianetti è considerato a turno, ancora oggi, come un giustiziere in lotta contro il potere o come un omicida spietato e calcolatore. Buono o cattivo, insomma. Voi da che parte state?

AS: Penso proprio che sia chiaro ormai che io ho preso quest’uomo massimamente in simpatia (ride, ndr). Io credo che sia nella natura umana etichettare ciò che abbiamo intorno in vari modi, soprattutto con le definizioni «buono» e «cattivo». Le categorizzazioni ci aiutano a comprendere il mondo e a darci sicurezza. Ma in realtà penso che il buono e il cattivo ce li abbiamo tutti dentro di noi e ci sono momenti della vita in cui si manifesta più l’uno o più l’altro. La crescita dell’individuo, poi, permette di gestire la parte di noi che agisce “di pancia”, ovvero in modo non razionale, disordinato e potenzialmente distruttivo. Io leggo la storia di Pianetti come la massima espressione di un uomo che ha seguito la parte più istintiva di sé, fino alle estreme conseguenze. C’è chi dice che fosse impazzito già da tempo, ma io ne dubito: com’è possibile che sia riuscito a sparire nel nulla e far perdere le sue tracce, sfuggendo alla caccia di migliaia di soldati mandati dal re, che setacciarono le montagne alle sue calcagna?

LD: Al di là della violenza dell’epilogo, la storia di Pianetti colpisce perché potrebbe rappresentare una sconfitta, quella di un uomo che credeva in una vita diversa, aveva idee e aspirazioni, anche visionarie, che sono state ferocemente osteggiate. Per voi è una storia triste?

AS: Di certo non si può considerare una storia leggera, anche se nel nostro reading c’è almeno un passaggio di un comico surreale, cioè il momento in cui Pianetti immagina i nomi che potrebbe dare ai suoi figli e inventa nomi blasfemi, non avendo alcuna intenzione di scegliere nomi di santi secondo i precetti della fede cattolica. Ma noi abbiamo voluto mantenere il senso dell’avventura di tutta questa vicenda e l’accoglienza del pubblico è sempre stata molto positiva: in scena, la chiave è tenere il ritmo serratissimo, in un crescendo iperbolico che porta alla conclusione drammatica. D’altra parte, seguendo le vicende di Pianetti, è impossibile non simpatizzare con lui, o almeno non provare un senso di ingiustizia per tutti i torti e le angherie che subì da tutti coloro che rappresentavano il potere, all’epoca: senti una parte di te, che inevitabilmente, si avvicina a lui.

LD: Secondo te, la storia di quest’uomo è legata e racconta anche i luoghi dove è nato e ha vissuto, da una parte New York e dall’altra le sue montagne della Val Brembana?

AS: Io credo che sia un personaggio che ha fortemente segnato questi luoghi. Sicuramente aveva uno spirito e delle idee che erano totalmente improponibili per un paese come Camerata Cornello, alla sua epoca; ma, come la maggior parte dei valligiani, aveva un legame fortissimo e primordiale coi suoi monti. Si racconta che, durante il periodo trascorso negli Stati Uniti, trovò il modo di fare un viaggio nelle montagne di lì, ma che disse «Non sono le mie»! Quelle montagne non erano certo casa sua… D’altronde, sono state proprio queste montagne a permettergli la fuga e a dargli un nascondiglio, forse per degli anni, anche se nessuno lo sa per certo. Si racconta anche che per moltissimo tempo dei valligiani lo aiutarono e lo nascosero ai soldati sulle sue tracce. E anche che, negli anni ’60, una donna anziana lo incontrò e lo riconobbe e, quando la donna gli chiese cosa faceva lì, lui rispose: «Sono venuto a vedere per l’ultima volta “i me corne”».

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