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Filamenti #1: piccolo percorso nel teatro (bergamasco) delle donne

Articolo. La città e la provincia bergamasca sono, a dispetto di quello che si possa pensare da fuori, luoghi di grande fermento culturale. La laboriosità tipica del nostro territorio si è espressa negli ultimi trent’anni in una costante tensione verso una vita culturale ricca e soprattutto partecipata. Vi racconto tre storie femminili di trasformazione che passano per il corpo e la rinascita: quelle di Piccolo Canto, Annagaia Marchioro e Matilde Facheris

Lettura 5 min.
(Mari Dein)

«Con la cultura si mangia eccome», come diceva Andrea Camilleri (cosa? Questo ad esempio) e si mangia anche a Bergamo. Festival, rassegne, eventi di ogni genere fanno ormai parte del panorama e dell’identità della città. Eppure spesso non è facile orientarsi dentro le diverse proposte e alcune cose interessanti rimangono sottotraccia. Per questo ho avuto l’opportunità di unirmi alla squadra delle autrici e degli autori di Eppen. Per segnalare possibili percorsi che mettano in luce quello che di culturale a Bergamo si produce e connetterli ad alcune piste tematiche utili ad orientarsi attraverso le diverse proposte. Darò insomma dei consigli, raccontando quello che in primis piace a me e sperando possa piacere anche a voi.

Per questo primo contributo ho pensato di partire da un tema a me caro, data la mia formazione da teatrante. Vorrei parlare del rapporto tra donne e teatro, per poi consigliarvi un piccolo percorso di visione di spettacoli. Cominciamo col dire che il teatro come luogo pubblico storicamente non è un luogo per donne. Le donne iniziano a recitare in teatro solo con la comparsa della commedia dell’arte nella seconda metà del sedicesimo secolo. Da luogo dedicato al tragico e al sacro come nell’epoca classica e medioevale, il teatro nel 1500 passa al carnevalesco e alla commedia. Nella commedia tutto può accadere.

Abbassamento, grottesco, rovesciamento. Ed è proprio attraverso questi meccanismi di rottura, che per la prima volta le donne entrano nel discorso pubblico. In un teatro che è diversità, marginalità, mostruosità come anche eccentricità, potere trasformativo e illusione collettiva. Da questa alterità, le donne cominciano a prender parte alla vita del teatro e per arrivare a darne poi un fondamentale contributo, attraverso forme espressive proprie come per esempio con i grandi capocomicati ottocenteschi. Eleonora Duse, una su tutte.

Purtroppo rendere conto del teatro delle donne non mai è stata una priorità della letteratura teatrale. Il canone teatrale si è piuttosto fondato su una retorica patriarcale (Gandolfi, 2006). Chiunque abbia fatto anche solo un esame di storia del teatro, conosce l’albero genealogico dei suoi «padri fondatori». Appia, Craig, Stanislavskij, etc. (Schino, 2015). Tale dispositivo non è neutro, ma agisce sul sistema culturale indirizzando il discorso pubblico ma anche le fortune e andamenti delle proposte culturali. L’alterità non entra in questo riconosciuto, accomodante, ordinato mondo di maestri. Nuovi astri della regia, donne, vengono di tanto in tanto annessi al pantheon, ma queste nuove acquisizioni non modificano la struttura del sistema.

Il teatro delle donne diventa perciò, anche in epoca contemporanea, un teatro invisibile. Un teatro che si consuma, che si perde, che si dimentica dopo la performance, che viene rubato, che finisce sullo scaffale di un professore barbuto sotto altro nome. Il teatro delle donne è un’eterna serie B. Se Grotowski aveva un teatro povero, noi ne abbiamo uno misero.

Recentemente il collettivo femminista intersezionale, amlet_a , ha finalmente messo in luce il problema italiano della presenza femminile nel mondo dello spettacolo e della sua rappresentazione. Perché le donne non siano più invisibili nel teatro è necessario smettere di pensarlo come un mondo fatto di soli «maestri». È necessario riconoscere e raccontare le sue storie. Bisogna pure spesso prendere queste storie per i capelli e tirarle fuori dalla pattumiera della storia, come anche connetterle per renderle più potenti.

Non si tratta solo di una questione di genere. Questo tipo di teatro ha un proprio programma tematico. Rifugge le narrazioni eroiche, la retorica del genio e «l’uno su mille ce la fa». Predilige il racconto corale, il muto riconoscimento, la cura e la via del corpo e del sapere pratico. Temi capaci di uscire dalla prospettiva egoica per aprirsi a una molteplicità di narrazioni e una complessità di punti di vista. Per questo oggi vi consiglio un piccolo percorso fatto di tre spettacoli a mio parere preziosi e in linea con l’idea che ho del teatro delle donne. Tre storie di trasformazione che passano per il corpo e che raccontano di un passaggio attraverso il nero, verso una nuova rinascita o resurrezione.

Risorgere cantando

Il primo è appunto «Piccolo canto di resurrezione» della Compagnia Piccolo Canto (qui abbiamo parlato della loro «Lisistrata»). Lo spettacolo è scritto e interpretato da cinque attrici e autrici bergamasche: Francesca Cecala, Miriam Gotti, Barbara Menegardo, Ilaria Pezzera e Swewa Schneider. Piccolo Canto è una composizione di storie sul cambiamento, sul riscatto, sulla guarigione. La domanda, ispirata dalla leggenda della Loba , donna che raccoglie le ossa abbandonate dei lupi e che gli ridà vita, è quella sulla possibilità e sul senso della resurrezione.

Resurrezione non intesa in senso astratto, ma come concreta possibilità di rinascita dopo un momento di crisi e di difficoltà. Le cinque protagoniste risorgono dalle loro piccole morti attraverso il potere curativo delle parole e delle loro storie. Storie di vita quotidiana che riportano il tema alto della resurrezione alla sua dimensione carnale e terrena. Ma è al canto che è affidata la potenza stratificata dell’efficacia delle parole. La voce diventa la vera medicina per la trasformazione. È la polifonia che – come dicono le autrici – si fa portavoce della nascita nuova. Una polifonia di stupefacente precisione e bellezza. Lo spettacolo che ha debuttato nel 2017 all’interno de I Teatri del Sacro e ha partecipato a diversi festival nazionali, viene riproposto il 23 luglio nella rassegna «Il Calderone» di Treviolo alle ore 21,30 presso il giardino della biblioteca di Treviolo.

Fame di una catastrofe

Il secondo è uno spettacolo di un’attrice non bergamasca, ma che verrà tra poco a Bergamo. Lei è Annagaia Marchioro e lo spettacolo si intitola «Fame mia – quasi una biografia» (fra qualche giorno la intervisteremo). Il lavoro scritto da Annagaia a quattro mani con Gabriele Scotti, è liberamente ispirato a « Biografia della Fame » di Amelie Nothomb, con la regia di Serena Sinigaglia. Al centro della narrazione il corpo e uno dei suoi bisogni fondamentali: la fame. Fame non intesa nella sua connotazione tragica, quanto piuttosto in quell’eterna tragicomica spinta al riempimento che è tipica dello Zanni, dell’Arlecchino mai sazio. Fame come costante ricerca di cibo, ma anche di amore, di riconoscimento, di qualcosa che cambi la vita, «di una catastrofe, di un cataclisma, di un cambiamento epocale» (cit. dal testo) capace di portar via il dolore di fondo che si accompagna alla nostra esistenza.

«Fame mia» parla di una donna talmente affamata che a un certo punto decide di smettere di mangiare. Annagaia, ispirata dalla Nothomb, porta il pubblico a fare un viaggio nella Venezia degli anni ’80, dove è cresciuta. Qui presenta tutta una serie di personaggi e situazioni comiche e poetiche, dove la metafora della fame si traduce nel bisogno di relazioni, che a volte sono nutrimento mentre altre fanno soffrire e sono difficili da digerire. Annagaia è un’attrice dalla straordinaria bravura soprattutto nell’interpretazione dei caratteri ed è guidata magistralmente dalla mano sicura di Serena Sinigaglia. Lo spettacolo è uno degli appuntamenti di « Lazzaretto Estate 2022 » e sarà venerdì 29 luglio alle ore 21.30.

Nuove possibilità di essere genitori

Infine voglio caldamente segnalare un lavoro che è scritto e interpretato da una delle attrici più brave che conosca, la bergamasca Matilde Facheris. Lo spettacolo, che ha appena debuttato, non sarà immediatamente visibile a Bergamo (è andato in scena a Osio Sotto lo scorso 9 luglio per « A levar l’ombra da terra »), ma tengo comunque a segnalarlo nella speranza che sarà possibile rivederlo nei prossimi mesi.

«Sarebbe stato interessante» è uno spettacolo scritto da Matilde insieme a Giulia Tollis con la regia di Marcela Serli. Questo spettacolo, prodotto dalla compagnia ATIR di Milano, è un viaggio che parla del desiderio di creare e a dare vita. In particolare affronta il tema dell’aspirazione alla genitorialità e delle difficoltà che le persone spesso incontrano per realizzarlo. Il difficile passaggio attraverso un processo di procreazione medicalmente assistita (PMA) racconta una storia che dal confronto con la perdita apre al mondo di altre e diverse forme di genitorialità. Lo spettacolo, costruito attraverso la raccolta d’interviste a persone coinvolte a vari livelli nel processo di PMA, riesce anche nella forma del monologo a restituire in modo corale e pure ironico l’arco complesso del viaggio di molte persone verso la desiderata maternità e genitorialità.

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La tensione corale nel suo crescere e incalzare ritmico sfocia, dopo un momento di confronto con l’accettazione del limite, in una forma leggera, liberatoria e toccante di coinvolgimento del pubblico. Dal cerchio dell’ascolto, il pubblico prende parte a quello che le autrici definiscono quasi «un rito psicomagico» , incarnando e quasi immaginando nuove possibilità di essere genitori.

La straordinarietà di questo spettacolo sta non solo nel coraggio delle autrici di affrontare un tema non facile, come pure nella matura forza attorale di Matilde Facheris, ma anche nella capacità registica di Marcela Serli di costruire un impianto capace di restituire la complessità dei piani che questo discorso implica. Marcela destruttura i livelli del racconto, evita di cadere nelle facili retoriche sulla maternità e porta in scena con Matilde la riflessione alta che solo attraverso la condivisione e la presa in carico collettiva e affettiva della nostra vulnerabilità possiamo davvero far nascere e crescere l’altro. E anche, meglio: «l’altra».

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