Ci sono tradizioni che non hanno bisogno di effetti speciali per entrare nel cuore. Basta una via acciottolata, una stalla aperta, qualche lume alle finestre e la presenza discreta di chi presta il volto a un frammento di storia. Così, per anni, è successo a Fiumenero, il paese dove sono cresciuta: tra le case antiche aperte per l’occasione, il presepe vivente riportava in scena la Natività e, con lei, un mondo che sembrava scomparso.
Camminare lungo il percorso significava entrare in un tempo sospeso. C’erano i boscaioli che segavano tronchi, le sarte piegate sulle macchine da cucire manuali, i pastori accanto alle pecore, i bambini vestiti come una volta seduti ai banchi di scuola. E poi l’osteria, il falegname, gli artigiani che con gesti lenti ricostruivano un quotidiano essenziale, fatto di mani, di pazienza, di comunità.
Quest’anno, per la prima volta dopo tanto tempo, il presepe vivente non prenderà forma : un anno di pausa per i volontari e il loro impegno, che richiede dedizione, tempo e cura. È una rinuncia che pesa, perché il presepe vivente resta una delle forme più autentiche di narrazione del Natale.
Non è una semplice rappresentazione: è il paese che si mette in scena, è la memoria che si dona ai più piccoli, è il ricordo di come si viveva davvero, prima delle luci al neon e dei mercatini standardizzati. È un gesto che tiene insieme storia, identità e comunità, capace di trasformare per una sera un borgo di montagna in un piccolo mondo antico.
Forse, proprio perché fragile, questa tradizione merita ancora di più di essere custodita. Perché quando un presepe vivente si accende, non prende vita solo la Natività: si accende un modo di stare insieme; semplice, genuino, profondamente nostro.
