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Cosa ha insegnato Alex Zanardi a me disabile

Articolo. Non sappiamo dove andrà la sua vita dopo l’incidente in handbike. Sappiamo però quanto sia stato importante nel mostrare il dietro le quinte emotivo della disabilità. Nel modo più naturale possibile

Lettura 4 min.
(Andrea Delbo)

Seguo le corse automobilistiche da quando ho memoria, dai tempi di Michael Schumacher e Barrichello alla Ferrari, per intenderci. Una passione coltivata nella solitudine delle domeniche a casa di mia nonna, durante le quali l’appuntamento con le gare di Formula 1 era immancabile. Soprattutto perché quelle due ore fatte di giri sempre identici (o quasi), coincidevano con il riposino pomeridiano di tutta la famiglia che puntualmente si addormentava appena dopo la partenza. Per poi risvegliarsi con le urla di Gianfranco Mazzoni che annunciava l’ennesimo trionfo della Rossa.

Di conseguenza per me Alex Zanardi, prima che essere un atleta paralimpico, è innanzitutto un pilota. Capace di esaltare, grazie alla sua guida “spericolata”, macchine che nella maggior parte dei casi non erano all’altezza delle sue potenzialità.

Emblematico in questo senso è sempre stato il racconto di una gara a Göteborg in Svezia, durante la quale decise di spingere a piedi la macchina pur di portare a termine la gara dopo essere stato speronato all’ultimo giro.

Del resto anche nell’incidente più noto – che gli costò l’amputazione delle gambe nel 2001 – era stato protagonista di un’ennesima rimonta, dal ventunesimo al primo posto, prima di perdere il controllo dell’auto ed essere colpito in pieno da una vettura che procedeva a tutta velocità.

Nuotare in acque dolci

Un tetraplegico non potrebbe mai partecipare alle Olimpiadi di Pechino. Mi sono a soffermata a lungo su quanto sia importante essere realistici e uscire dalla retorica del “tutto è possibile”. Però, confrontandomi con Zanardi, mi sono resa conto di quanto tempo spreco a lamentarmi.

Il periodo più brutto della mia infanzia è stato quello durante il quale il pediatra mi obbligò ad andare in piscina contro la mia volontà. Sosteneva che fosse lo sport più completo, che ne avrebbero giovato i miei muscoli e che sarei anche cresciuta in altezza (l’unica ragione per la quale mi convinsi ad iniziare, in realtà).

L’acqua – che sappia di cloro o di sale – è sempre stata il mio peggior nemico. Non riesco ad avere pieno controllo del mio corpo, il quale, più che alleggerirsi, si trasforma in una lastra di marmo per l’ansia di cadere, affogare o scivolare. Ma allora, in quello che poteva sembrare un ambiente protetto, quantomeno dalle onde che sfidano il mio equilibrio, a pesare non era il mio corpo, ma la mia diversità.

Sentivo l’ilarità malevola dei coetanei, soprattutto quando durante le attività in acqua ero l’ultima a terminare gli esercizi. Le risate si trasformavano nei sospiri annoiati delle istruttrici, che dall’alto mi dicevano “Dai, muoviti Carmen. Intanto pensavo che nonostante tutto mi stavo muovendo e che se avessi potuto scegliere non avrei di certo scelto di nuotare alla velocità di un bradipo. Immaginavo che in fondo quella fosse la mia vendetta personale. Contro le risatine dei compagni ma soprattutto contro la mancanza di sensibilità di quegli adulti che avrebbero dovuto incoraggiarmi invece di aumentare la mia ansia.

Ancora adesso mi chiedo perché continuavo a lamentarmi con mia madre, senza spiegarle quali fossero le ragioni dei miei categorici rifiuti. Probabilmente già a quell’età era forte in me un senso di pudore che mi faceva provare vergogna. Non di me stessa, ma di quei “grandi” il cui limite più evidente era quello di non avere l’intelligenza per riuscire a riconoscere i miei sforzi.

Ognuno gareggia per la propria olimpiade, ed io la mia medaglia d’oro l’ho vinta quando ho capito che per sentirmi leggera non ho bisogno dell’acqua, ma di circondarmi di persone che diano il giusto sale alla vita. Perché in questa ormai nota gara con l’onestà ho imparato che il talento è innato, ma l’intelligenza pure.

Mi tremano le gambe

Alex ha raccontato che pochi giorni dopo l’incidente, mentre era in ospedale, apprese la notizia di un altro pilota a cui avevano amputato una gamba. Il suo commento fu: “Poveraccio”. I suoi familiari lo guardavano incredulo, a lui di gambe ne avevano amputate due. In questa reazione riconosco l’atteggiamento di mia madre. Quando parlo delle difficoltà che affrontano altre persone mi risponde: E allora tu?

La verità è che le storie degli altri mi emozionano, ne vado alla ricerca e ne sono attratta. È più facile immedesimarsi nel dolore altrui che spiegarlo, ed è più facile comprenderne la portata e l’intensità se lo si sperimenta sulla propria pelle.

E allora io? Quella sulla disabilità non è una gara a chi porta il peso più grosso. Ed io sono fortunata perché confrontandomi con gli altri ho avuto la possibilità di comprendere che non solo avevo bisogno di ricevere aiuto ma anche di darne.

Ho capito che non tutti sono pronti a ridere dei propri limiti. E che l’atteggiamento insolente nei confronti della mia malattia non è solo un modo per rompere il ghiaccio, ma anche per permettere a chi come me è affetto da una disabilità di sapersi perdonare. Di essere meno severo con se stesso, di prendersi una pausa da tutti quegli “accorgimenti” che caratterizzano le relazioni quotidiane.

Un po’ come quando Zanardi, dopo l’incidente, esordì ad una cerimonia di premiazione dicendo “Sono così emozionato che mi tremano le gambe”. Per un personaggio pubblico questa strategia ha un impatto ancora maggiore, perché significa sbeffeggiare il politicamente corretto che ci impone di non ironizzare su una protesi.

L’arte di correre (rischi)

Io e Alex abbiamo un’altra cosa fondamentale in comune: ci piace correre rischi. Perché alla base della sua scelta di non abbandonare la competizione agonistica, sulle macchine prima e con l’handbike poi, c’è una presa di posizione ben precisa: neanche l’amputazione delle gambe mi permetterà di sprofondare nell’autocommiserazione.

È possibile che se il fulmine m’è arrivato tra capo e collo una volta mi colpisca nuovamente, ma rimanere a casa per evitare e scongiurare quest’ipotesi significherebbe smettere di vivere, quindi no, io la vita me la prendo”.

È questa l’eredità più importante che Alex consegna a tutte le persone disabili. Ho preso a morsi la vita scegliendo di essere io a definire il mio futuro e non la mia malattia. Ma sarei ipocrita se non ammettessi di avere anche le risorse per farlo.

Partendo da queste riflessioni, Zanardi ha creato l’associazione “Obiettivo3” per sostenere economicamente tutti i giovani disabili che vogliono avvicinarsi agli sport paralimpici e fornire loro le attrezzature necessarie.

Non so come andrà questa volta, non so se ci sono colpe da accertare, ma so per certo che Alex ha vissuto fino ad oggi facendo ciò che ama. Ha rimesso in piedi la sua vita e l’ha sfidata quando sembrava finita. A noi non resta che stare qui a sperare che torni per vedere cosa sarà mai capace di inventarsi ancora.

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