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I vecchioni della Clementina, la casa di riposo di Bergamo abbattuta negli anni Ottanta

Racconto. Il ricovero era un edificio con saloni immensi dai soffitti altissimi, lunghi tavoli di legno scuro e tanti vegliardi tutti seduti. Fuori, un giardino in cui i ragazzi del quartiere rubavano la frutta dagli alberi, sfuggendo al terribile Carsana. Ma tutto finì con la speculazione edilizia

Lettura 6 min.
Ditta Cittadini, Bergamo, giardino del Ricovero della Clementina (Museo delle storie, Archivio fotografico Sestini, Raccolta Domenico Lucchetti)

Lorenzo accostò l’auto sulla piazzola dei bus pregando di non vedere apparire la sagoma del mastodonte arancione nello specchietto retrovisore. Afferrò il cellulare e chiamò Riccardo per avvisarlo del ritardo, meglio vedersi direttamente là, in via Borgo Palazzo.
“Ma è una via lunghissima!” protestò il figlio.
Lorenzo non ricordando il numero civico, lo rassicurò dicendo che era alla Clementina.
“Cosa è?” domandò sbigottito l’altro.
Lorenzo rise.
“Cerca allora Ascom via Borgo Palazzo” disse “la banca è lì accanto.”
Con lo scooter si faceva prima e infatti Lorenzo trovò Riccardo proprio dove gli aveva detto, con le braccia conserte e in una posa piena di orgoglio perché stava per entrare nel mondo dei grandi. Il suo primo conto in banca. Lorenzo parcheggiò nel primo posto a disposizione e lo raggiunse.
“Apre tra un quarto d’ora” annunciò Riccardo, indicando la banca dietro di sé.
Ok, fece il padre.
“Ma cosa è quel nome che hai detto al telefono?” chiese Riccardo.
Lorenzo guardò la facciata del palazzo e sorrise.
“Un’altra volta, è una storia vecchia e lunga” rispose, ma il figlio lo incalzò visto che avevano un po’ di tempo da occupare.
“Quando ero molto giovane” comincio Lorenzo “qua c’era un vecchio palazzo che ospitava tanti vecchi.”
Una casa di riposo, ma un po’ diversa da come erano diventate negli anni Duemila: era piuttosto un ospizio che si prendeva cura di tanti poveri anziani che non avevano nulla, un ricovero i cui ospiti erano affettuosamente chiamati “i vecchioni”.

“Per uno scherzo del destino stava proprio di fronte al Manicomio” disse indicando con un cenno del capo la struttura dell’Asl dall’altra parte della strada.
“L’Asl era un manicomio?” spalancò gli occhi Riccardo
“Proprio così. Ma di quello ne parleremo un’altra volta”.
Tornando ai “vecchioni”, la Casa di Riposo – stava proprio scritto sulla facciata, specificò Lorenzo – dava vitto, alloggio, cure e un minimo di calore umano a tanti anziani indigenti. Sia nel cortile della struttura che intorno, c’era anche molto verde e avevano quindi la possibilità di fare qualche passeggiata all’aria aperta.
“Considera che Bergamo finiva qui ed era praticamente campagna”.
La maggior parte degli ospiti veniva da una vita dura e difficile: a parte i cosiddetti casi umani – alcolizzati, malati e disadattati che non erano stati assorbiti dalla struttura psichiatrica di fronte – qui venivano a concludere la loro esistenza terrena esseri umani reduci da una vita spesa a lavorare nei campi o in una fonderia, donne che avevano fatto sempre la serva a qualcuno oppure le operaie.
“Non erano vecchi nel senso moderno del termine: ho letto che la loro età media era 65 o 70 anni”.
Oggi a quell’età la gente gioca a tennis e va a ballare. A quei tempi e soprattutto tra le classi più umili, l’invecchiamento avveniva più velocemente e lasciava ben poche energie. E, non essendoci né mutua né particolari trattamenti pensionistici, chi aveva poco da adulto aveva ancora meno da vecchio.
“Qua erano accuditi da suore, infermieri, inservienti e volontari”.

La Casa di Riposo nacque nel 1915 dalle ceneri della smantellata Casa di Riposo dei Poveri, fino ad allora ubicata in un altro bel palazzo nel centro di Bergamo, quello bianco del Creberg in Porta Nuova e di fronte alla fontana.
La struttura fu realizzata su progetto dell’architetto e ingegnere Elia Fornoni – tra i tanti edifici che ha costruito, ci sono proprio il Manicomio, il Cimitero Monumentale e la Scuola d’Arte Fantoni – sì, proprio quella che frequenta la tua ragazza – e poi anche tante chiese, come Le Grazie in Porta Nuova e quella di Loreto.
Insomma, quando decisero di dare un’altra destinazione al cosiddetto Palazzo Creberg, per i nostri vecchioni edificarono qui un dignitoso e piacevole palazzo di gusto neoclassico, seppure un po’ austero, e la Casa fu trasferita qui, in questa zona della città che si chiamava Clementina; era un quartiere molto conosciuto in città perché qui c’era lo “Stadium Atalanta” – e un grande tifoso della Dea come te, caro Ricky, dovrebbe saperlo – un vecchio ippodromo riconvertito nell’arena della giovane squadra calcistica orobica.
Riccardo rimase a bocca aperta.

“Credevi che l’Atalanta avesse sempre giocato nel Gewiss Stadium?” chiese ridendo Lorenzo.
Giocarono nello Stadium dal 1919 al 1928, l’anno in cui fu costruito il Brumana, ora chiamato Gewiss (con i dovuti aggiornamenti).
Lorenzo puntualizzò che durante le due guerre mondiali la struttura della Casa fu però ospedale militare.
“Ignoro dove mandarono i vecchioni” disse con una smorfia preoccupata.
“Ma chi pagò per realizzare il Palazzo della Casa di Riposo?”
Bella domanda!
esclamò Lorenzo.
“Benefattori, il più famoso dei quali fu Francesco Gallicciolisì proprio quello della via, disse rispondendo all’appunto di Riccardo – che alla morte lasciò tutti i suoi averi proprio alla Casa di Riposo.”
“Tu ci sei mai entrato?
Lorenzo annuì, sorridendo e guardando lontano.
“Sì” disse quasi con un sussurro “ero molto piccolo.”
Ci andò con la sua classe. Seconda o terza elementare. Forse quarta. Comunque era piccolo. Sciorinò qualche immagine che affiorava da quel lontano passato: saloni immensi con soffitti altissimi, lunghi tavoli di legno scuro e tanti vegliardi tutti seduti. Gli uomini con la giacca scura e il panciotto, qualcuno anche il cappello e molti con il classico bastone ricurvo; le donne agghindante in modo elegante per l’occasione e perfino un po’ di trucco. I giardini e il verde rigoglioso che si intravedevano dagli enormi finestroni. I bimbi portarono dei pensierini scritti in classe per loro e gli anziani ne furono felici. Non ricordava i loro visi ma solo i loro occhi che sorridevano.

Lorenzo conservava nella mente anche le immagini create dai racconti di amici che avevano vissuto in quel quartiere e che gli avevano narrato i loro ricordi della Casa di Riposo.
La Clementina, come era conosciuta da tutti.
“Dopo tanti anni” disse “ho ancora scolpite nella mente le loro parole.”
Raccontò così dei ragazzini che ne superavano il muro di cinta – la barriera che separava o proteggeva i vecchioni dal resto del mondo – per entrare nei loro campi, pieni di alberi da frutto. Ragazzini in pantaloni corti, con la candela al naso e soprattutto affamati, che si trovavano di colpo in un piccolo paradiso pieno di mele, pere, ciliegie, pesche, uva, i cachi e tanti altri dolcissimi frutti.
Per quei ragazzini, veri e propri scugnizzi di marca orobica, era un godimento entrare di nascosto e con destrezza, prendere la frutta direttamente dalle piante – allora, naturalmente, senza pesticidi e diserbanti – e magari riempirsi le tasche e le magliette con quanto potevano arraffare, e infine risalire velocemente sul muretto cercando di non schiacciare tutto quel ben di Dio.
“Sembra un vecchio film, di quelli in bianco e nero” ridacchiò Riccardo.
“Sì, in stile neorealista” commentò Lorenzo prima di riprendere il racconto.
“Ma c’era un ostacolo per entrare in quel paradiso.”
Il guardiano dei giardini.

Il terribile Carsana: senza un braccio – forse a causa della guerra, chissà – ma con un nodoso bastone nell’altro, il Carsana non permetteva a nessun estraneo di avventurarsi nel frutteto. Vigilava sempre attentamente sui giardini e sulle loro prelibatezze; controllava soprattutto che le piccole canaglie non entrassero di soppiatto a rubacchiare e probabilmente, ogni volta che scopriva i furti, si ripeteva che prima o poi li avrebbe presi per un orecchio e portati dalle guardie.
Invece, almeno con gli amici di Lorenzo, i suoi propositi rimasero (quasi) sempre tali.
“I ragazzini si erano organizzati per bene.”
Uno di loro, a turno, saliva sulla cima del muro divisorio facendo rumore per attirare l’attenzione del custode. Appena si accorgeva di essere stato avvistato, si calava giù dal muro ed entrava, il vigilante/segugio lo inseguiva e il ragazzino/lepre – che ovviamente correva come un fulmine rispetto all’altro – se lo portava in giro per i giardini.
“Ho già capito il resto” sorrise ammiccando Riccardo.
“Già, proprio così: mentre i primi due giocavano a guardie e ladri, gli altri si calavamo da un altro punto del muro.”
Razziata tutta la frutta che potevano, buttavano un fischio alla lepre per segnalare la missione compiuta e allora l’amico correva ancora più veloce per risalire prontamente sul muro; il feroce Carsana rimaneva lì, con il bastone nell’aria gridando qualche maledizione all’indirizzo dei ragazzini. Con un braccio solo e sicuramente un fisico appesantito non ce l’avrebbe mai fatta ad arrampicarsi sul muro.

“Una volta al sicuro, la banda con calma si divideva il malloppo.”
Ma non andava sempre bene, a dire la verità, perché gli autori dei raid abitavano tutti nelle case attorno alla Casa di Riposo e i loro volti non erano sconosciuti al Carsana; forse anche lui viveva nel quartiere. Quindi qualche volta capitava che il custode – si vede che la almeno sua vista era ancora buona – riusciva a riconoscere uno scugnizzo e allora si precipitava dai suoi genitori a inveire contro l’autore del misfatto e chiedere la giusta punizione.
“E poi?” chiese Riccardo.
“Allora i genitori non erano sempre pronti a difendere le azioni – qualsiasi cosa avessero fatto – dei loro pargoli di fronte al mondo.”
Molto diversamente da ciò che succede oggi, aggiunse Lorenzo. Oltre a ciò, i genitori un tempo non erano teneri nemmeno in materia di punizioni.
“Ma le razzie continuarono: l’ebrezza – o la fame – era più forte di qualsiasi sgridata.”
I suoi amici, per giustificare le loro marachelle, avevano detto che la maggior parte della frutta – in eccedenza rispetto al fabbisogno interno – non veniva nemmeno raccolta; i vecchietti non potevano certo salire sugli alberi e alla fine marciva.

La banca stava aprendo ma Riccardo fermò il padre.
“Esiste ancora questa Casa di Riposo?”
Il padre rispose che il bel palazzo venne purtroppo abbattuto negli anni Ottanta.
“Per tirare su al suo posto questa cosa” disse indicando l’edificio di fronte a sé con una smorfia costernata.
Il ricovero però continuò ad esistere altrove e fu pomposamente ribattezzato RSA, ossia Residenza Sanitaria Anziani; fu trasferito in via Gleno – dove sta anche il carcere – mentre i suoi Giardini delle Delizie furono fatti a pezzi dalla speculazione edilizia: sulle macerie dello storico edificio di inizio Novecento spuntarono alcune delle più brutte costruzioni di Bergamo, l’immancabile e anonimo centro commerciale, tante case tutte attaccate e tutte incolori, il cubo di vetro e cemento. Le viette laterali diventarono tristi e semi-abbandonate.
L’unica cosa sopravvissuta allo scempio fu la Chiesetta e spostandosi un po’ si poteva scorgerne il campanile.
“La mia non è nostalgia, caro Ricky.”
È una denuncia morale.
Non tutto ciò che viene dopo è Progresso, diceva Manzoni.
“Soprattutto in Edilizia, aggiungo io” sentenziò con un ghigno.
Schiacciò l’occhio al figlio e lo invitò finalmente a entrare nell’istituto di credito per firmare il suo primo conto corrente.

(Grazie a Museo delle Storie per la concessione delle fotografie)

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