93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

#giovanifuturi: Luca Antiga, una storia di coraggio e amicizia, medical imaging e deep learning

Intervista. Prosegue il nostro viaggio fra gli innovatori, facendoci raccontare la nascita e lo sviluppo di Orobix Srl. “Ho fatto ricerca, ma a un certo punto è nata la voglia di mettermi in gioco di più per arrivare all’applicazione finale”

Lettura 3 min.
Luca Antiga

Da ricercatore a imprenditore: Luca Antiga è CTO di Orobix Srl, società bergamasca fondata insieme al compagno di scuola Pietro Rota, focalizzata sull’ingegneria di soluzioni di intelligenza artificiale per la medicina e l’industria. Un passaggio per cui è servita una buona dose di incoscienza: “In alcuni momenti non avevo la terra sotto i piedi ma il mio obiettivo è trovarmi in condizione di capire cose nuove, questo mi motiva nel non fermarmi. La sfida è riuscire a scalfire la realtà e lo status quo”.

Figlio di genitori professori delle superiori, musicista dilettante, ha conosciuto il suo futuro socio al liceo: “Siamo molto complementari, conoscendoci da tanto tempo abbiamo una fiducia di base inscalfibile e una interazione molto efficace, non abbiamo mai bisogno di spiegare o giustificarci”. Sposato con due figli, Luca Antiga ha conosciuto la moglie al Mario Negri, dove entrambi erano ricercatori: “Ma non possiamo lavorare insieme perché dopo tre secondi finiamo per litigare. Quando ci abbiamo provato, in Canada, eravamo lo zimbello dei colleghi”.

MM: Qual è stata la tua formazione e come sei finito a Bergamo?

LA: Sono nato a Desenzano, dove ho fatto il liceo scientifico, e lì ho conosciuto Pietro Rota che da compagno di scuola è diventato il mio socio ed è il motore imprenditoriale dell’azienda. Ho fatto due anni di ingegneria elettronica a Brescia ma al terzo anno mi sono trasferito al Politecnico di Milano per seguire Ingegneria biomedicale. Lì c’era Andrea Remuzzi che teneva un corso di Ingegneria dei tessuti: mi piaceva molto, gli ho chiesto la tesi e mi ha portato a Ranica, all’Istituto Mario Negri. Al Negri ho anche conosciuto la mia futura moglie, una statistica. Per il post dottorato sono andato a studiare medical imaging in Ontario, Canada. Peraltro continua il legame con Bergamo perché il mio capo al Robarts Research Institute ha poi preso casa a San Pellegrino, sua moglie si è innamorata della Valle Brembana.

MM: Cos’è la medical imaging?

LA: È l’analisi delle immagini medicali. Ci sono vari aspetti che sono tecnologici e non medici: si tratta di come ottimizzare l’immagine per vedere i fenomeni in modo migliore. Ad esempio, se io vedo sullo schermo una arteria che si riempie e si svuota posso usare la matematica e stratificare i pazienti.

MM: Com’è stato il passaggio da ricercatore a imprenditore?

LA: Al Negri mi occupavo di analisi di immagini per lo studio dei vasi sanguigni, poi ho lavorato in ambito renale, seguendo progetti europei e collaborazioni. Non voglio in alcun modo sminuire la ricerca, che è importantissima, ma a un certo punto è nata la voglia di mettermi in gioco di più per arrivare all’applicazione finale. Siamo partiti piccolissimi: io, Pietro – che nel frattempo era diventato ingegnere gestionale e lavorava solo part time per Orobix – e Michele, il mio primo tesista. Lavoravamo molto per laboratori di ricerca che volevano ingegnerizzare le loro soluzioni, abbiamo preso contatti con le aziende ma in modo limitato.

MM: Quando è stata la svolta?

LA: Quando ci ha contattati un’azienda farmaceutica per un progetto: ci avrebbero dato le immagini per realizzare un sistema a uso dei clinici che funzionasse come modello predittivo. Il livello di difficoltà era alto.

MM: È qui che avete cominciato a testare il deep learning?

LA: Sì, ci abbiamo messo otto mesi, capendo che il deep learning è utile per risolvere problemi complessi, sono algoritmi trasversali che riescono ad apprendere compiti complessi sulla base di esempi. Ci siamo verticalizzati su queste metodiche e ora abbracciamo tutte le applicazioni: manifatturiero, medicale, gaming, astrofisica… Si tratta non solo di sviluppo tecnologico ma di servizio.

MM: In che senso?

LA: L’intelligenza artificiale va governata, noi vogliamo fare quello. Abbiamo un bagaglio di esperienza che ci porta ad anticipare alcuni temi fondamentali legati all’utilizzo concreto dell’AI nelle aziende. Monitorare gli algoritmi, valutarne le performance e migliorarle nel tempo, prevenire anomalie e ridurre i rischi sono gli aspetti critici sui quali secondo noi si gioca la vera partita dell’intelligenza artificiale. Ma non ci sono ricette prestabilite da mettere in pratica, bisogna guardare avanti e provare. È tutto in evoluzione e gran parte dell’innovazione viene dall’estero, da grandi realtà che mettono a fattor comune le loro scoperte. Per questo siamo anche contributor attivi di PyTorch, libreria di machine learning open source, utilizzata per applicazioni come la visione artificiale e l’elaborazione del linguaggio naturale, sviluppata principalmente dal laboratorio di ricerca AI di Facebook. Open source non è solo “fare le cose gratis”, ma fare parte di una comunità di persone e crescere di riflesso.

MM: Da piccola start up, ora siete in 50. Com’è successo?

LA: La seconda svolta è stata nel 2019 quando l’azienda bresciana Antares Vision ha investito in Orobix con il 37,5 %, dando una accelerazione importante. L’iniezione di capitale ci ha permesso investimenti, soprattutto in personale. Sono molto contento del team.

MM: Tutti maschi?

LA: No! Eravamo metà e metà un paio di anni fa, ora purtroppo la rappresentanza femminile è calata perché non è facilissimo trovare donne nel nostro ambito. Anzi, se posso fare un appello: venite a lavorare con noi. Siamo un mix di matematici, fisici, ingegneri, informatici, laureati in economia. Avere un mix è necessario, c’è molta complementarietà nel nostro gruppo. Nelle donne trovo molto senso di responsabilità e di affidabilità, anche nelle più giovani. Io ho una figlia di 12 anni e un figlio 7, e forse alle ragazze viene chiesta una maggiore assunzione di responsabilità. Non so se sia un bene o un male, ma alla fine le ragazze prendono le cose in maniera seria e influenzano positivamente l’ambiente di lavoro.

MM: Orobix: come avete scelto il nome?

LA: Eravamo sulla seggiovia, credo a Colere, ci piaceva l’idea di avere un richiamo al nostro territorio nel nome, ci siamo detti: aggiungiamo una x, così evochiamo anche la parte tecnologica. È un nome “glocal”, non ne abbiamo più trovato uno migliore. Ognuno mette l’accento dove vuole, ma in realtà va sulla seconda o. A fine 2020, in occasione dei nostri 10 anni + 1 ci siamo regalati il restyling del logo che mette l’accento proprio su quella o, ma siamo sempre pronti farci una risata per le interpretazioni più creative del nostro nome!

Approfondimenti