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Da Amman al Mar Rosso passando per il Wadi Rum: il mio viaggio in Giordania

Racconto. Giugno è forse uno dei mesi migliori per visitare la Giordania, terra d’incanto e meraviglie. A qualche settimana dal rientro, vi racconto cinque giorni fra dune, dromedari e città leggendarie

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Wadi Rum (Foto di Francesco Ruffinoni)

Qualche giorno fa, rileggendo le «Elegie duinesi» di Rilke, i miei pensieri non hanno potuto fare a meno di rivolgersi al cielo e al deserto della Giordania, nazione che ho visitato lo scorso giugno per la prima volta e che mi ha lasciato profondamente incantato. Questo perché, a un certo punto, nella nona elegia si parla di un viandante che, scendendo lungo il ciglio di un monte, porta con sé una «gialla e azzurra genziana», allegoria di un sapere poetico raggiunto. Sono proprio i colori del fiore a riportarmi alla mente quella perfetta complementarità fra l’ocra e il celeste che si può scorgere nel Wadi Rum, deserto che ho avuto la fortuna di vedere durante il mio soggiorno in quella che, posta sulla sponda orientale del fiume Giordano, fu un tempo la terra dei nabatei.

La Giordania, terra fascinosa

Caratterizzata da un clima semi-arido e definita «oasi di stabilità» in una regione, il Medio Oriente, contrassegnata da costante instabilità, la Giordania, con una popolazione di più di dieci milioni di abitanti, si piazza all’undicesimo posto nella classifica dei Paesi arabi più popolosi.

La tappa iniziale della mia vacanza è Amman, la capitale. Qui, assieme ad altri compagni di viaggio, atterro il 14 giugno. Dall’aeroporto, dopo un pranzo veloce, ci dirigiamo verso la moschea di re Abdullah I che, costruita fra il 1982 e il 1989, è coronata da una magnifica cupola di mosaico ceruleo e che, all’interno, può ospitare settemila fedeli (e altri tremila nel cortile). Un luogo ieratico, che sorge di fronte a una chiesa copta. Non è la prima volta che entro in una moschea, eppure, varcando la soglia di quel confine sacro, mi sento un po’ come se fossi in una cattedrale , come se fossi a casa, in Italia. Sarà la stanchezza o la fascinazione delle forme arabescate ma è piacevole osservare i musulmani in preghiera, lasciarsi coccolare dal ritmo dei loro gesti e delle loro parole e dalla tacita frescura che permea la sala a pianta ottagonale.

Di Amman, non dimentico la particolarità della sua Cittadella, le strade labirinto (miscellanee caotiche in cui la tradizione rincorre incessantemente la modernità) nonché i suoi bazar, pieni di colori lucenti e di profumi speziati, ma anche gli occhi brillanti delle sue donne, circondati da un viso discreto, avvolto dall’hijab.

La mattina successiva, tramite un piccolo pullman, ci dirigiamo verso nord, alla volta di Jerash, posta a circa trenta chilometri da Amman. Il nostro autista si chiama Mohammed, un signore sulla cinquantina, garbato, discreto, solare, l’unico giordano con cui ho modo di parlare a lungo. Gli chiedo così della sua famiglia e della sua terra, ma anche di re Abd Allah e del principe Husayn (fresco di «royal wedding»). Padre di cinque figli, Mohammed mi spiega i sacrifici affrontati per farli studiare e come l’attuale sovrano hashemita, a suo avviso, sia il migliore dei sovrani possibili in una società in cui, a detta sua, il ventaglio fra ricchissimi e poverissimi non risulta essere molto ampio. C’è nostalgia nei suoi occhi quando, forse in un attimo di debolezza, mi confessa il suo cruccio più grande: il tempo passato lontano dalla moglie, in gran parte impiegato a scorrazzare i turisti in lungo e in largo per la Giordania.

L’intera giornata è dedicata alla visita della città antica, Gerasa, annessa dai romani alla provincia di Siria e facente parte della cosiddetta «Dekápolis», ora immenso sito archeologico che ha dell’incredibile. Le strutture architettoniche di questo grandioso complesso sono infatti numerose e ben conservate e, al di sotto di un cielo terso e di una crudele canicola, paiono vive, parlanti, come se strizzassero l’occhio ai tanti turisti accaldati, testimoniando la grazia e la precisione geometrica del genio latino. Gerasa presenta monumentali porte d’accesso, strade ortogonali, due splendidi teatri, un ippodromo, il macellum, un ninfeo e l’indimenticabile Foro. E poi c’è il Tempio di Artemide. Le sue colonne, dai capitelli corinzi ancora integri, sfidano la volta con arroganza, in un tripudio di armonia difficile da spiegare. Una meraviglia superata solo dalla celebre Petra che, non a caso, è una delle sette meraviglie del mondo moderno nonché patrimonio dell’UNESCO.

Quando mi si chiede di Petra rispondo che le piace svelarsi un poco alla volta, come un tulipano che lentamente si schiude. Del resto, al suo volto più celebre, El Khasneh al Faroun, si accede tramite una stretta gola lunga quasi due chilometri (il Sîq). Petra è veramente magnifica, uno spettacolo per la vista e un sogno che si avvera: sin da bambino desideravo vederla (no, non c’entra Indiana Jones). In passato capitale del regno nabateo (popolo di potenti guerrieri) e prospero snodo commerciale, Petra è una città modellata nella pietra arenaria, che presenta diverse tonalità di rosa. Con un po’ di immaginazione, odo i versi delle bestie e il vociare dei suoi abitanti e scorgo i mercanti intenti a rivaleggiare fra loro, mentre esibiscono le fortune dei loro commerci, che portano i nomi di seta, incenso e mirra. Giunti a El Khasneh proseguiamo verso Al Deir («il monastero»), tramite una salita formata da ottocento scalini scavati nella roccia come scavate nella roccia sono le abitazioni circostanti.

La scarpinata (invero, una camminata piuttosto semplice) dura circa quaranta minuti e, una volta arrivati a destinazione, troviamo ristoro in un piccolo chiosco. Ricordo di aver sorriso quando, intento a sorseggiare la mia bibita e a godermi la grande facciata ellenistica di Al Deir, dalle casse acustiche del baretto è partita «Mamma Maria» dei Ricchi e Poveri.

Salutata Petra, città unica nel suo genere, partiamo in direzione Wadi Rum, il più vasto «uadi» della Giordania e uno dei canyon più spettacolari al mondo. Questa, per me, è l’avventura più bella di tutta la vacanza. Osservare le stelle di un firmamento limpidissimo, per poi dormire nel deserto, in un accampamento beduino, è qualcosa che non solo illumina gli occhi di gioia, ma che riempie il cuore di pace e gratitudine. Quegli spazi sconfinati e ostili, solitari, in cui si può respirare il silenzio del creato, proiettano l’uomo nella dimensione dell’essenzialità. Ci si sente più vicini a Dio, ci si sente felici. Mi sento felice il mattino seguente quando, all’alba, posso bearmi della purezza del cielo, mi sento felice durante l’escursione in sella ai dromedari, mi sento felice nell’essere circondato da un’infinità di sabbia splendente che a volte è del color dell’oro, a volte dell’ocra e, altre volte ancora, acquista le tonalità di un rosso argilla. Abbandonare il Wadi Rum è un po’ come uscire dal confessionale (o dalla saletta dello psicologo): un’esperienza corroborante per la mente e per lo spirito.

Le ultime due tappe del viaggio sono Aqaba e Sweimeh. Momenti in cui ho la possibilità di tuffarmi nelle acque cristalline del Mar Rosso e di galleggiare in quelle altamente salate del Mar Morto. A cavallo di queste due giornate “marinaresche”, il pomeriggio a Dana, un piccolo villaggio del governatorato di al-Tafila dove, trasportato dal richiamo magnetico del muezzin, mi perdo in uno sfolgorante tramonto con vista panoramica sul Wadi Dana. Quasi una malinconica epifania, preludio dell’imminente ritorno a Bergamo, avvenuto il 19 giugno.

Dell’azzurro e dell’oro

Conosco persone che si vantano di aver viaggiato molto ma che poi non sono in grado di dire la loro riguardo avvenimenti storici e geopolitici di primaria importanza. Persone che hanno visto mezzo mondo ma che, nonostante ciò, rimangono turbate e infastidite dalla presenza dell’immigrato, del povero e del “diverso”, conservando una ristrettezza di vedute e un’aridità di cuore singolari. Persone che forse, più che fare viaggi, sarebbe meglio che, ogni tanto, aprissero un buon libro. Dico così perché non ho mai considerato il viaggiare motivo di crescita personale o di conoscenza, per lo meno non necessariamente. E questo soprattutto se con viaggiare si intende, in realtà, occupare i pochi giorni di ferie a disposizione con mete scelte quasi a caso, magari pure un po’ sperdute, ma inevitabilmente turistiche.

So che affermando ciò si corre il rischio di risultare impopolare, soprattutto in una società edonistica come la nostra, in cui tutto dev’essere voyeuristicamente commestibile e in cui, da tempo, è fiorita una nuova religione laica che fa del viaggio uno stile di vita, imperativo categorico per i novelli McCandless, e la cui qualità spesso viene concepita come direttamente proporzionale alla sua “esoticità” e “instagrammabilità”.

Eppure, devo ammettere che questi cinque giorni in Giordania li porterò sempre con me. No, il mio sguardo sul mondo non è cambiato, non ho appreso chissà quali saperi o nozioni né, tanto meno, ho conquistato una qualche forma di logos poetico come il viandante rilkiano. Tuttavia questa vacanza, per quanto turistica, si è rivelata un inno potente alla storia antica e alla bellezza del creato, amalgama perfetto fra natura e cultura. Un tesoro inestimabile di vivaci emozioni, di cui fare memoria. E mi ricorderò così del sapore dell’hummus e del sapore dei datteri, del canto del muezzin e del vento alla sera, del profumo del tè e dello sguardo affilato dei beduini. Ma soprattutto del cielo e delle dune. Dell’azzurro e dell’oro. Come due genziane che nel pensiero diventano infine un unico fiore.

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