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Storie di Covo: dalla tradizione di San Lazzaro alla coloratissima street art

Articolo. Un percorso breve ma intenso, alla scoperta del piccolo comune bergamasco e delle affascinanti storie che si nascondono tra le sue vie. Tra anime giustiziate, reliquie e muri dipinti

Lettura 4 min.
«Il ratto di Europa», Kraser Tres

Il sole sta calando mentre lascio Covo. Il campanile del paese spicca con la sua sagoma alta e scura in mezzo alla pianura, mentre il cielo si dipinge di uno di quei tramonti caldi e intensi che si vedono solo in inverno. Mentre la fotocamera del mio smartphone immortala in scatti compulsivi una distesa di arancione senza riuscire a restituire quello che vedono realmente i miei occhi, penso a che bella sorpresa è stata per me questa giornata a Covo. Un piccolo comune insospettabile: tra le sue strade vivono poco più di quattromila abitanti, ma si nascondono alcune storie davvero particolari, che attendono solo di essere narrate.

Sono arrivata a Covo nemmeno tre ore prima, giunta fin qui solo perché da qualche parte, tempo fa, ho letto delle opere di street art che sono state realizzate grazie a «CURE», un progetto di rigenerazione urbana di «Culturalmente Festival» che vuole colorare i muri del paese con dipinti collegati a temi della tradizione e del territorio.

Il mio itinerario alla scoperta di Covo parte proprio dall’opera di street art più recente, «Il ratto di Europa» dell’artista spagnolo Kraser Tres. Fiori e foglie dai colori brillanti risaltano sullo sfondo nero e rappresentano i campi che circondano il paese, mentre la principessa in grigio sembra quasi una statua in groppa a Zeus che, nelle sembianze di toro, la rapisce.

Proseguo poi lungo l’ex Strada Statale fino ad incontrare un mulino, che su una pietra incastonata nel muro dell’edificio riporta l’antica data del 1411. Il mulino si trova nei pressi di quella che una volta era Porta Mattina, la porta di accesso a est del paese: leggo questo accenno di storia in un pannello informativo e mi accorgo ben presto che, come tutti quelli sparsi per il comune, ha la particolarità di essere scritto in italiano, inglese e bergamasco.

Proprio dietro al mulino, il dipinto di Fabio Petani dal titolo «Hydrogen carbonate & musa sikkimensis» lancia un monito sul cambiamento climatico, e in una giornata invernale così tiepida e luminosa non posso che percepire questa preoccupazione, letteralmente, sulla mia pelle che si scalda al sole.

Procedendo su via Trento, l’edificio squadrato della banca contrasta contro il cielo azzurro e fronteggia il monumento ai caduti. L’atmosfera è quella immobile e sospesa della domenica, appena prima che le strade si riempiano del vociare del pomeriggio. Giro l’angolo della pesa pubblica e mi ritrovo presso i Terai, il viale alberato delimitato da via Trieste e via De Micheli. Proprio qui si svolse uno degli avvenimenti più tragici e importanti della storia di Covo, ricordato con un monumento e una piazza inaugurati nel 2020 (anche se qualcuno preferiva i Terai nella loro versione precedente, senza la nuova piazzetta).

L’accadimento risale al 1798, quando tre ladri assalirono una ragazza del paese per derubarla e vennero quindi processati e condannati a morte per mezzo di una ghigliottina allestita proprio sui Terai. Disperati, prima di morire chiesero perdono, commuovendo gli abitanti di Covo, che ancora oggi in agosto festeggiano il triduo delle anime giustiziate.

Procedendo fino in fondo alla via, uscendo dal centro del paese, incontro «Proiezioni», il grande dipinto di Vesod. Sul muro di una casa, l’artista ha riprodotto una particolarissima veduta di Covo, che esce da ogni schema prospettico creando un’opera affascinante, di quelle che si potrebbero stare a guardare per ore. Sul lato destro del dipinto si specchia la figura di una giovane donna, a rappresentare l’essere umano come proiezione del territorio che abita.

Non distante dall’opera di Vesod avevo già notato una santella che ora torno a studiare più da vicino. Scopro così la storia forse più avvincente che Covo custodisce nel suo patrimonio di cultura e tradizione locale: quella del teschio di San Lazzaro.

La santella, dipinta da Giacomo Giordani nel 1855, rappresenta nientemeno che il cappellano di Bartolomeo Colleoni, nell’atto di consegnare una reliquia di San Lazzaro al parroco di Covo. La tradizione vuole infatti che, mentre il Colleoni combatteva nei pressi di Senigallia, il suo cappellano trovò (o trafugò?) le reliquie di Santa Maddalena e San Lazzaro in una piccola chiesa minore. Il Colleoni decise di donarle alla parrocchia di Romano di Lombardia, dove egli stesso risiedeva, ma al momento del passaggio per Covo i cavalli si fermarono, le campane iniziarono a suonare e i bagagli diventarono pesantissimi, suggerendogli come un segno divino di lasciare il teschio di San Lazzaro in omaggio al paese.

Il teschio è tuttora conservato nella chiesa parrocchiale e venerato dai fedeli, anche se resta un alone di mistero intorno a questa reliquia: San Lazzaro venne infatti decapitato a Marsiglia, ben lontano da Senigallia. Sappiamo bene però che durante il Medioevo la compravendita di reliquie non era di certo l’attività più trasparente ed onesta, e il teschio conservato a Covo pare avere corrispondenza con l’epoca del martirio. Probabilmente è giunto fin qui attraverso chissà quali peripezie: fatto sta che i covesi lo hanno parecchio a cuore e lo venerano ormai da tempo nella splendida chiesa dei Santi Filippo e Giacomo.

La chiesa stessa ha una storia particolare, poiché la facciata negli anni Trenta del Novecento è stata spostata sul lato opposto dell’edificio rispetto all’originale e si apre ora sulla tranquilla Piazza dei Santi Apostoli. Le linee semplici e pulite dell’esterno della chiesa contrastano con l’interno riccamente decorato e con la grande cupola inondata di luce.

Le sorprese di Covo non finiscono qui: la mia inguaribile curiosità e un pizzico di fortuna mi permettono di accedere anche all’Oratorio dei Disciplini, all’interno del quale nel 1948 venne realizzata una grotta per la Madonna, ispirata alla grotta di Lourdes. Sulle pareti della piccola chiesa sono anche esposti alcuni degli stendardi utilizzati in passato per le processioni, finemente decorati a mano.

Non mi resta ora che andare ad ammirare le ultime due opere di street art presenti a Covo. La prima è quella dell’artista Andrea Ravo Mattoni , che ha dipinto completamente a bomboletta la «Conversione di San Paolo» del Caravaggio, opera che diviene così accessibile a tutti nonostante il quadro originale faccia parte di una collezione privata. Apprezzo molto l’idea di prendere l’opera di un pittore classico con un legame forte con il nostro territorio come il Caravaggio e trasferirla su un supporto inconsueto, democratico e se vogliamo anche effimero come solo un muro bianco può essere. Senza contare la dovizia di particolari e sfumature: mi chiedo sempre molto sorpresa come possa uscire tanta bellezza da una bomboletta spray.

L’ultima opera davanti alla quale mi soffermo è quella realizzata da Ufocinque e dedicata al compositore e violinista Giulio De Micheli , che visse a lungo a Covo e qui viene dipinto insieme ai luoghi più significativi del paese. Un omaggio a uno dei personaggi più amati dalla comunità, ma anche un invito ad andare ad esplorare gli spazi che lo stesso De Micheli frequentava ed apprezzava nel suo quotidiano.

Nel lasciare Covo mi imbatto nell’unica rimasta delle nove torri che facevano parte del castello del paese. L’edificio è andato distrutto ormai da secoli, ma pare che nel corso di quest’anno verranno dipinti altri due murales e si vocifera che uno dei due rappresenterà proprio il castello scomparso.
Sarà davvero così? Ci sarà la possibilità di rendere il castello di nuovo visibile, dopo tanto tempo?
Non ho certezze, se non quella di tornare per vedere le nuove opere, per ammirare altri muri vuoti riempirsi di colore e intrecciare il passato e il presente di Covo e del territorio circostante. Generando così una nuova opera d’arte, una nuova storia.

(Tutte le foto sono di Lisa Egman)

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