In questi giorni vedremo scorrere immagini, proiezioni ed eventi dedicati al ricordo di quel periodo che, come scrive lo storico Paolo Pezzino, «dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è stato uno di quelli nei quali i cittadini, volenti o nolenti, si sono trovati a dover compiere scelte “politiche”, dalle quali dipendeva non solo la loro sorte personale, ma anche, quella della patria».
Allora anche le cittadine e i cittadini che abitavano le Valli bergamasche, in città e in provincia dovettero compiere delle scelte, alcune che misero a dura prova le loro vite o, addirittura ne causarono la morte.
Per ricordare quei giorni abbiamo pensato di proporvi un articolo in cui ripercorrere alcune figure chiave attraverso cui rileggere la storia e riflettere sugli ideali di libertà e democrazia per i quali hanno lottato.
Betty Ambiveri e le altre in un taccuino per la Resistenza
L’ambientazione è il carcere di Aichach, in Alta Baviera, dove viene detenuta Elisabetta (Betty) Ambiveri (1888- 1962), figura di rilievo della rete antifascista cattolica bergamasca. «Un taccuino per la Resistenza. Betty Ambiveri e le altre, Aichach 1944-1945» (ed. Nomos) è il titolo del volumetto che contiene uno spaccato del carcere duro femminile durante il Terzo Reich. Ambiveri viene reclusa nel 1944, dopo essere stata arrestata all’età di 56 anni, per aver nascosto delle armi nel giardino e nella soffitta della sua villa di Seriate.
Dopo la confessione nel carcere di Sant’Agata viene condannata a morte, ma la pena inflitta le verrà “sostituita” con dieci anni di dura detenzione. Il quadernetto è composto in forma di filastrocca e illustrazioni, dalle compagne di cella, le romane Vera Michelin-Salomon ed Enrica Filippini Lera, molto più giovani di lei, che la chiamavano, infatti, «zia» o «zietta». Una peculiarità che emerge dal breve volume è che nonostante la vita carceraria caratterizzata da rigidità, lavori forzati e scarsità di cibo le autrici ne parlano tono ironico e satirico.
Giorgio Paglia e le sue ultime parole «Viva l’Italia»
Luogo simbolo della Resistenza bergamasca è la Malga Lunga dove vennero combattute le battaglie di chi ha donato la vita per una patria libera e in pace. Lì sui monti a cavallo tra Sovere e Gandino il 17 novembre del 1944 morirono otto partigiani: Giorgio Paglia, insieme ai compagni Guido Galimberti, Andrea Caslini, Mario Zeduri, Alexander Noghin, Ilarion Efanov, Simone Kopcenko, e Donez.
Quel venerdì di autunno una trentina di fascisti della Legione Tagliamento partiti da Endine Gaiano circondarono la malga e aprirono il fuoco. A poca distanza aveva sede il comando della 53esima brigata Garibaldi (in località Campo d’Avene) che però preferì non intervenire, se non in serata, quando era ormai troppo tardi. Persero la vita nello scontro a fuoco il giovane Mario Zeduri, studente del Sarpi di Bergamo, e Donez. Per Paglia e gli altri cinque compagni spetta la condanna a morte e la fucilazione al muro del cimitero di Costa Volpino il 21 novembre alle 18. A Giorgio Paglia, per via dei meriti ricevuti dal padre, Guido, fascista, podestà di Alzano Lombardo, venne offerta la grazia. Il partigiano chiese di estenderla anche ai cinque amici prigionieri e di fronte al no della Tagliamento chiese di essere il primo a venire fucilato. «Viva l’Italia» furono le sue ultime parole.
Un commovente ricordo del partigiano – che è riportato nelle pagine del libro «Stasera mi fucileranno» (Associazione editoriale Il filo di Arianna) – è quello che abbiamo dalla madre, Teresa Pesenti in Paglia, che il giorno dopo la fucilazione raggiunge Costa Volpino per recuperare la salma del figlio. La scena che si trova di fronte è il muro del cimitero di Volpino con ancora i fori lasciati dai proiettili, e a terra, riversa, la salma del figlio. Nessuno l’aveva coperta, e nessuno l’aveva ripulita. Non aveva nemmeno gli scarponi e i militari impedirono ai famigliari di avere indietro il portafoglio di Giorgio. Si dovette accontentare del suo capello di alpino. L’immagine finale è quella straziante di una madre, che durante il tragitto di ritorno alla volta di Bergamo, era seduta sul cassone di un camion, reggendo tra le braccia il corpo del figlio morto nel disperato tentativo di proteggerlo, almeno, dai sobbalzi della strada.
Giuliana Bertacchi e il piacere di “tentare insieme”
Il fatto che oggi vi sia l’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea (Isrec), è anche grazie all’intellettuale antifascista bergamasca Giuliana Bertacchi, che fu tra le fondatrici dell’allora Istituto provinciale di storia per il Movimento di Liberazione (Isml), che è oggi diventato l’Isrec.
“La Bertacchi” – così la ricordavano i compagni del Pci – poi semplicemente “la Giuliana” ricoprì l’incarico di presidente per poi dedicarsi a progetti di formazione nell’Anpi e alla collaborazione con la biblioteca Di Vittorio della Cgil di Bergamo. Sindacalista, rappresentante politica ma soprattutto incarnazione dell’antifascismo e della sua difesa. Un libro a cura di Anpi provinciale di Bergamo, dal titolo «C’era questo piacere di tentare insieme. Giuliana Bertacchi, dieci anni dopo» (ed. Sestante) ricorda la sua storia e le battaglie intraprese. «Una intellettuale vera e generosa, nonostante un carattere non semplice, con una cultura vastissima e curiosa; una intellettuale organica, che ha sempre intrecciato la sua passione per la storia con un impegno politico dichiarato, nella convinzione profonda che la pregiudiziale antifascista non possa essere messa in discussione in alcun modo – così si legge in uno scritto in sua memoria a undici anni dalla morte (2014) sulla pagina della biblioteca Di Vittorio con cui collaborava occupandosi dell’archivio dei tessili, prima, e poi del Comitato Accoglienza profughi ex Yugoslavia –, perché quei venti mesi di lotta partigiana, che diedero per la prima volta agli operai e ai contadini la possibilità di concorrere in prima persona al cambiamento di questo paese sono stati uno snodo fondamentale nel passaggio alla democrazia, verso una società di liberi ed uguali ancora da venire».