La prima cosa da riconoscere, quando si parla di educazione affettiva e sessuale, è che tocca le nostre corde emotive. Sono temi sensibili, su cui ognuno di noi ha diritto ad avere le proprie opinioni, ma anche il dovere di riconoscere la libertà altrui di pensarla diversamente. In più, ogni genitore ha la libertà educativa, cioè il diritto di scegliere come e con quali valori educare i propri figli, garantito dall’articolo 33 della Costituzione. Lo stesso articolo sancisce la libertà di insegnamento come principio fondamentale, garantendo l’autonomia didattica del docente.
La prendo alta perché vorrei evitare di infilarmi nell’ennesimo discorso pubblico polarizzato, che ci vuole schierati su posizioni opposte: il governo è oscurantista perché toglie l’educazione sessuale e affettiva dalle scuole, oppure fa bene perché poi chissà cosa vanno a raccontare ai bambini? È un po’ più complesso di così.
Non esiste un’educazione «neutra»
È difficile fare educazione sessuale e affettiva in modo inclusivo, cioè rispettoso delle credenze di tutti. Opinioni che sono tutte “legittime”, nella misura in cui in Italia c’è libertà di pensiero ed espressione, nel rispetto della legge. Posso pensare che l’aborto sia un diritto o che sia un delitto; posso ritenere che le differenze fra i generi abbiano una base biologica o che siano solo una costruzione culturale; posso scegliere o meno di usare contraccettivi; posso credere nei ruoli di genere “tradizionali” ed educare di conseguenza i miei figli (ma, ad esempio, non posso ricorrere alla violenza per disciplinarli né imporre loro matrimoni forzati); posso giudicare la gestazione per altri un crimine o un grande gesto di generosità (ma non posso ricorrervi legalmente); posso pensare che la pornografia sia una legittima attività ricreativa, oppure un pericolo o un abominio; posso essere favorevole al matrimonio paritario fra persone delle stesso sesso, oppure contraria, e anche credere che gli atti di omosessualità siano intrinsecamente disordinati (ma non posso insultare o discriminare le persone in base all’orientamento sessuale).
Di solito, chi pensa che l’educazione sessuale nella scuola pubblica sia una faccenda semplice, che dovrebbe essere accettata senza tante polemiche, immagina che tutti debbano aderire al suo punto di vista, ritenuto «oggettivo». Ma di «oggettivo» c’è molto poco. Se mettiamo un prete cattolico, un’operatrice di un centro antiviolenza, una femminista storica, un ebreo ortodosso o un attivista della comunità lgbtqia+ a fare educazione sessuale (esempi presi a caso di persone degnissime) avremo cinque tipi molto diversi di educazione sessuale. A qualcuno andrà bene che nelle scuole si insegnino metodi di contraccezione “naturali” approvati dalla Chiesa, ad altri no. A qualcuno andrà bene dire ai bambini che potranno affrontare un percorso di transizione di genere, ad altri no. (questi esempi, invece, non sono presi a caso, ma episodi reali, riportati dai giornali).
Quindi, meglio non fare nulla?
Davanti a queste difficoltà, che a me paiono oggettive e da non minimizzare, la tentazione è quella di non fare niente. Sono d’accordo: piuttosto che fare male, meglio evitare e basta. Dopotutto, mediamente i bambini hanno delle famiglie che si occupano di loro. Inoltre, nelle scuole il sesso non è un tabù: se prendiamo le indicazioni nazionali attualmente in vigore, approvate nel 2012, tra gli obiettivi di apprendimento alla fine della quinta elementare c’è «acquisire le prime informazioni su riproduzione e sessualità».
Obiettivi dello stesso tenore, adeguati alle età, sono presenti per i cicli scolastici successivi. Se, invece, parliamo di affettività in senso lato, non è qualcosa che semplicemente si insegna facendo bene la scuola? La maestra che stimola l’ascolto attivo, che mette vicini di banco il bambino timido e quello più estroverso, che vigila sugli episodi di bullismo, incoraggia la cooperazione e sanziona linguaggio e comportamenti scorretti, non fa già educazione all’effettività? Sicuramente sì, e però non basta.
I diritti dei bambini
I bambini non sono solo i figli dei loro genitori, ma sono cittadini, e come tali hanno dei diritti. Hanno il diritto all’istruzione, alla salute, alla sicurezza. Sapere che esistono metodi contraccettivi di diverso tipo ed efficacia, come funzionano e quali sono i loro effetti collaterali è un diritto, indipendentemente che si scelga di usufruirne o meno. Sapere come accedere a un consultorio pubblico, come avviene una visita ginecologica o andrologica è un diritto. E non sono informazioni che vengono date durante l’ora di scienze. Conoscere il nome esatto delle parti del corpo è un diritto, nonché una forma di prevenzione contro la pedofilia. Un ragazzino in età prepuberale può avere paura di non starsi sviluppando nel modo adeguato: siamo sicuri che ne parlerà con un genitore o un insegnante? O cercherà risposte online?
Una dodicenne che viene molestata per strada da fischi o allusioni sessuali ha diritto di sapere che non è accettabile, che non è colpa sua e che ci sono degli strumenti per reagire in sicurezza. Un dodicenne ha diritto di sapere che non è così che ci si approccia all’altro sesso (non glielo insegna la famiglia? Auspicabilmente sì, ma un rinforzo non fa male, specialmente in un’età nella quale il rapporto con i pari e l’emulazione dei più grandi contano più di mamma e papà). I temi del consenso, della privacy, del rispetto di sé e degli altri sono cruciali. E su questo credo che possiamo essere d’accordo qualunque sia il nostro orientamento politico o religioso. Non se ne occupa già la famiglia? Non se ne occupa la scuola? Magari sì, ma possiamo anche avere l’umiltà di riconoscere di non essere esperti, ad esempio, di pedopornografia o bullismo online (anche se infiliamo lo smartphone in mano ai nostri figli minorenni) e che fare prevenzione in questo campo salva letteralmente delle vite.
Personalmente sarei contenta se mio figlio (scuola primaria) facesse un percorso di educazione all’affettività e alla sessualità, a certe condizioni. È non perché io non voglia occuparmene, ma perché penso sarebbe utile per lui, come per tutti i bambini, affrontare il discorso nel gruppo dei pari, con una guida adulta specializzata. Sono convinta che serva farlo non solo alle superiori, ma anche, e forse soprattutto, prima dello sviluppo.
A certe condizioni
Gli strumenti per comprendere la realtà vanno dati, nel modo più intellettualmente onesto possibile. Per questo serve che a fare educazione sessuale siano professionisti accuratamente formati e selezionati, specializzati nella loro età di riferimento (tematiche adatte a un sedicenne possono non esserlo per bambini di 8 anni) che seguono le linee guida dell’Oms, con un programma comune. Oggi tutto è demandato alle singole scuole, che possono chiamare esperti di diverso genere, preparazione e serietà, oppure – se non hanno soldi o vogliono evitare grane – decidere di non fare nulla.
Le differenze macroscopiche di opinione e sensibilità non scompaiano, ma se riusciamo a concentrarci sugli obiettivi comuni (accettazione di sé, sicurezza, rispetto, consenso) non sono più un ostacolo insormontabile. Più inaccettabile dell’abolizione dell’educazione sessuale, sarebbe renderla “facoltativa”: una totale resa della missione educativa della scuola, con il forte rischio che a rinunciarvi siano i bambini e i ragazzi che ne hanno più bisogno. Se l’educazione sessuale diventasse per tutti «una cosa seria» non sarebbe compito di noi genitori vigilare su metodi e contenuti, non più di quanto non sia compito nostro vagliare il programma didattico di scienze o storia. Così come «a casa propria» ognuno può essere creazionista, ma nella scuola pubblica viene insegnata la teoria dell’evoluzione (non siamo in America), così a scuola verrà insegnato che l’omosessualità è una «variante naturale del comportamento umano» (la definizione è dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) e di ogni argomento sensibile si potrà dare conto con equilibrio e misura delle diverse posizioni, possibilmente partendo dal vissuto degli alunni, perché il fine è quello di essere utili a loro più che di compiacere la visione ideologica di chiunque.