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La scuola non deve essere al servizio dell’economia (ma la bellezza non salverà il mondo). Dialogo con Giulio Ferroni

Intervista. Studioso di letteratura italiana e autore di uno dei più famosi manuali in materia, ha pubblicato “Una scuola per il futuro” (La Nave di Teseo), un manifesto per il ritorno in classe, perché è da qui che si può cambiare il mondo

Lettura 3 min.

Ho studiato, come tanti, sul “Ferroni”, storico manuale di Storia della letteratura italiana. Non ho mai pensato a Giulio Ferroni come a una persona in carne e ossa, perciò parlarci al telefono e intervistarlo è stata un’esperienza insolita. Professore emerito della Sapienza di Roma, mi ha raccontato con robusto buonsenso e divertita pacatezza come vede la scuola del futuro, dopo l’esperienza della pandemia.

Sono i temi di cui tratta “Una scuola per il futuro” (La Nave di Teseo, collana le Onde, 272 pagine, 13 euro, in libreria dal 26 agosto), una riflessione sull’educazione delle giovani generazioni, ma anche su quella di noi “anziani”, alle prese con il Covid-19 e la sua narrazione. Infine, anche e sempre, si parla di letteratura, ma evitando ogni banalità stile “La bellezza salverà il mondo”, fra le più abusate citazioni di Dostoevskij.
Durante il primo lockdown il professore si è dedicato proprio ad aggiornare la sua “Storia della letteratura italiana”, ed è da qui che comincia la nostra conversazione.

MM: Nel suo libro paragona lo schematismo di una certa storiografia, che tende a tutti i costi a estrarre un senso dallo svolgersi degli eventi e dalle opere e dai testi, alla superficialità del racconto della pandemia. In che senso?

GF: Tutti corriamo il pericolo di cercare di collegare la realtà a schemi precostituiti e rassicuranti. Il paradigma ha una funzione di conoscenza, ma è insoddisfacente a spiegare la realtà, così come non possiamo ricondurre il passato a modelli e immagini. La pandemia avrebbe dovuto spingere a rimettere tutto in discussione. Invece ognuno cerca di ricondurla a modelli già esistenti, i politici in modo particolarmente mistificatorio. Quando succede qualcosa di così importante, tornare come prima è pericoloso. Non dobbiamo rendere sostenibile un modello di vita basato sul consumo infinito, ma cambiarlo alla radice.

MM: A questo proposito lei parla di “umanesimo ambientale”, cosa intende?

GF: Abbiamo bisogno di una cultura che ancora una volta metta al centro l’uomo, non perché signore del creato ma perché responsabile dell’ambiente. L’umanesimo non può basarsi su un’astratta idea di sviluppo. Naturalmente quando parlo di “uomo” comprendo i due sessi; lo scrittore Guido Morselli si era inventato il termine “Uonna” già negli anni Settanta per includere sia l’uomo sia la donna…

MM: Apriamo una parentesi: Giulio Ferroni è favorevole agli asterischi e allo Schwa a fine parola al posto della desinenza maschile (qui la spiegazione della linguista Vera Gheno)?

GF: Mi sembra molto difficile perché la lingua va parlata. Si tratta di praticare il superamento delle discriminazioni di genere nella realtà, poi la lingua evolve da sé.

MM: E “ministra” o “sindaca” che effetto le fanno?

GF: Vanno benissimo, cambiare la desinenza maschile in-o in una femminile in -a rientra nelle possibilità della lingua italiana. Sono altre le parole che mi infastidiscono.

MM: Ad esempio?

GF: Resilienza. Una proprietà meccanica diventata una parola alla moda, trovarmela anche nel “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” del Governo non mi è piaciuto.

MM: Un’altra formula che detesta, come spiega nel libro, è “capitale umano”.

GF: Mi fa orrore applicata alla scuola. È una formula nata in contesti economici e che non ha senso portare subito nella vita dei ragazzi. Uno potrà pure diventare “capitale umano”, ma non a 15 anni. Gli adolescenti devono andare incontro alla ricerca del senso della vita, e la scuola non serve banalmente a fornire “competenze” per il “capitale umano”, ma a formare persone coscienti di ciò che hanno intorno e destinate a vivere degnamente. Mi sembra agghiacciante che il futuro delle giovani generazioni sia così strettamente collegato alle istanze dello sviluppo capitalistico, e che tutto questo venga dato per scontato e ineluttabile.

MM: La Dad è solo uno strumento emergenziale o cambierà per sempre il modo di fare scuola?

GF: Gli zelatori della scuola in rete c’erano già prima del Covid. Pensano che la tecnologia faciliti l’apprendimento, che sia un bene che ognuno scelga ciò che vuole. Io credo che per la formazione sia importante il contatto con qualcuno che si presenta come un maestro e propone cose differenti da quelle che uno già cerca o sa.

MM: Con la scuola da casa ci siamo resi conto dell’importanza dei rapporti umani?

GF: Speriamo che il contatto torni vero e totale. Andare a scuola è muoversi da casa e trovare cose che non ci sono nella propria stanza, la vita che scorre. La classe è una comunità quotidiana che dà senso allo sviluppo di un anno scolastico intero e non si può vivere online.

MM: Il Covid ha riportato in auge classici come l’introduzione al “Decameron” o la peste ne “I promessi sposi”. Al di là di questi, c’è un libro che le ha dato conforto durante i momenti più bui?

GF: Difficile dirlo, perché i libri che danno un senso alla vita sono talmente tanti… La letteratura aiuta sempre nelle situazioni di chiusura e difficoltà. Ho riletto autori che, anche se non parlano di argomenti vicini alla pandemia, sono così totali e intensi da ridarci tutta la vitalità possibile. Uno di questi è Stendhal. “Il rosso e il nero” e “La Certosa di Parma” sono così totali e intensi da farci dire che la bellezza esiste.

MM: La bellezza esiste, ma non salverà il mondo.

GF: Tutti citano il principe Miškin (il protagonista de “L’idiota” di Dostoevskij, ndr) ma il contesto in cui viene pronunciato la frase era più complicato e ambiguo. Il mondo è messo male e ci vuole ben altro, l’unica chance starà nell’impegno e nell’intervento delle giovani generazioni. Mi accontenterei che la bellezza venisse riconosciuta e difesa, che non fosse quella plastificata dei media ma quella della grande arte e letteratura.

MM: Ma arriverà il grande romanzo sul Covid?

GF: Può arrivare, non sono pessimista su nuovi exploit letterari. C’è anche il rischio che qualcuno lo abbia già scritto, ma data la natura della comunicazione e dell’editoria non lo conosceremo mai. Senza dimenticare che si sono anche i libri scoperti tardi e diventati dei classici dopo la morte dell’autore.

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