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Non basta riaprire le scuole: cosa chiedono i genitori che si battono per la didattica in presenza

Articolo. Le scuole sono rimaste chiuse un mese. Riapriranno, ma non tutte: solo fino alla prima media. È una vittoria, seppure parziale, dei genitori che difendono a gran voce per il diritto all’istruzione e alla sicurezza.

Lettura 5 min.
La manifestazione dei genitori di Nembro contro la Dad - cartelli e scarpe abbandonate davanti al municipio

Trovare soluzioni individuali a problemi collettivi è la specialità della mia generazione. Se poi si tratta di bambini e famiglia è scontato che ognuno faccia da sé, magari ricorrendo ai nonni o rinunciando a lavorare fuori casa. La fatica è tanta e la voglia di lamentarsi pure, ma di solito non si va oltre il post sui social o lo sfogo fra amici.

A volte, però, ci sono momenti di rottura, quando il carico sulle spalle diventa non più sostenibile. Uno di questi è stato giovedì 4 marzo, improvvisamente diventato l’ultimo giorno di scuola per tutti gli studenti, dall’infanzia alle superiori. In tutta Italia sono nate iniziative di protesta, per la prima volta nelle piazze o davanti alle scuole, e non solo sul web. Abbiamo parlato con alcuni genitori bergamaschi che sono diventati attivisti e non vogliono mai più sentirsi accusare di usare la scuola come un parcheggio.

Nastri, zaini, scarpine, abbracci

Le prime reazioni, nate spontanee pressoché in ogni scuola, sono state quelle di ricordare – con segni simbolici – l’esistenza degli alunni. Il gruppo della scuola dell’infanzia di mio figlio ha invitato a ricoprire la cancellata con i disegni e i nomi dei bambini. Altri hanno legato nastri colorati, portato zaini o manine di carta. Un modo per ricordare che i bambini ci sono, anche se non si vedono e non si sentono.

Il comitato genitori dell’Istituto comprensivo Camozzi ha indirizzato la petizione “Se la Scuola non è una priorità, quale futuro per i nostri figli?” agli assessori lombardi Fabrizio Sala e Alessandra Locatelli, firmata da migliaia di persone.

Poi sono nate proteste più strutturate, come i flash mob con le scarpine dei bambini lasciate in piazza, a Treviglio e a Nembro, per manifestare contro la chiusura delle scuole materne ed elementari. Tra le iniziative più spettacolari, l’abbraccio alla scuola Papa Giovanni di Monterosso, dove una novantina di alunni hanno circondato la loro scuola, con l’aiuto di nastri colorati per rispettare le regole del distanziamento. Poi le manifestazioni di piazza per chiedere di tornare a scuola, l’ultima -nazionale, in 60 piazze italiane - venerdì 26 marzo, sempre con mascherine e distanziamento.

“Vuoi vedere tuo figlio intubato?”

La sicurezza e il rispetto delle norme sono una regola quando a manifestare sono le mamme e i papà. Eppure il clima sociale è così esacerbato che spesso anche i genitori più ligi, se chiedono per i loro figli di potere andare a scuola in presenza, sono etichettati come irresponsabili, negazionisti, untori. Francesca Gastoldi, impiegata, mamma di un bambino di 5 anni, è tra coloro che hanno organizzato la protesta silenziosa delle scarpine in piazza Setti a Treviglio: “Un’iniziativa che ha avuto un buon riscontro, ma sono rimasta basita nel leggere alcuni commenti sui social: siamo state accusate di mettere in pericolo i nostri figli perché non vogliamo tenerceli a casa, o di fare morire i nonni. C’è chi mi ha scritto ‘Vuoi vedere tuo figlio intubato?’. Eppure allontanare negazionisti e no-vax è una delle regole di Priorità alla scuola, movimento che cerca il sostegno di tutti i genitori”.

“Io lo so cosa è il Covid. Mi sono ammalata, con tanto di polmonite bilaterale intersiziale, a marzo dell’anno scorso, a casa da sola con quattro figli, senza assistenza– racconta Elisa Denegri, educatrice e madre di quattro ragazzi di 7, 9, 17 e 18 anni -. Eppure penso che non solo il Covid, ma anche la scuola sia un’emergenza. Sappiamo che non esiste il rischio zero, ma ci sono tanti piccoli rischi che ognuno si accolla per continuare a vivere, come quando prendiamo l’auto anche se sappiamo che esistono gli incidenti stradali. Le scuole sono luoghi un po’ più sicuri di altri e sono un diritto e un bene essenziale per tutelare la salute mentale e il diritto allo studio. La Dad non si può chiamare scuola. I più fragili si perdono, ci sono bambini che piangono davanti allo schermo perché perdono la connessione o che si scollegano senza che l’insegnante se ne accorga. Non c’è relazione, solo un po’ di nozionismo”.

I bambini come pacchi postali

A spingere tanti genitori a “scendere in campo” non è stata solo la difficoltà di organizzarsi tenendo i bambini a casa o la preoccupazione per la salute psicofisica dei figli. È la sensazione che la famiglia e la scuola non siano abbastanza considerate. “Chiudere le scuole dal giovedì al venerdì è stato uno shock. Così è troppo”, afferma Elisa Denegri, che ha aperto il gruppo “La mia casa non è la scuola” all’una e mezza di una domenica notte, dopo una riunione con altri genitori. Commenta Roberta Caprini, che ha organizzato la manifestazione bergamasca di Priorità alla scuola del 26 marzo: “Le mie bimbe mi hanno chiesto: ‘Perché non possiamo andare a scuola? Noi mettevamo le mascherine, rispettavamo le regole’. Si sono sentite tradite dagli adulti”.

“Anche i genitori si sono sentiti arrabbiati e frustrati per la modalità della comunicazione: dall’oggi al domani i vostri figli staranno a casa – prosegue Roberta Caprini -. Ci sono state scene abbastanza brutte nelle scuole quel giovedì. Ci sono maestre e bambini che hanno ricevuto la comunicazione della chiusura 10 minuti prima dell’ultima campanella. In quei dieci minuti hanno dovuto consegnare tutto il materiale e dire ai bambini che non sapevano quando sarebbero tornati a scuola. Non è colpa degli insegnanti, che si sono molto adoperati per rendere la cosa il meno traumatica possibile, ma i bambini sono stati trattati come pacchi postali, senza rispetto per loro, per la scuola, per i genitori. È esplosa la voglia di dire: non si fa così”.

Non basta riaprire

I genitori dei bambini sotto gli 11 anni possono tirare un sospiro di sollievo perché le scuole riapriranno tra poco, ma la soddisfazione è contenuta. Riaprire nelle stesse condizioni in cui si è chiuso non ha molto senso: “Per noi la sicurezza è importante, non vogliamo essere punto a capo al prossimo picco di contagi o alla prossima emergenza – spiega Roberta Caprini -. Inoltre, il diritto all’istruzione è valido per ogni ordine e grado e non vogliamo dimenticarci delle medie né delle superiori, che non tornano a scuola da ottobre. La Dad, che andava bene in emergenza lo scorso anno, non può diventare strutturale. Chiediamo classi meno numerose e che i soldi del Recovery fund vengano spesi per la scuola in presenza”.

“Anche i padri devono cominciare a darsi una mossa– interviene Enzo Valoti, piccolo imprenditore di Nembro e papà di due figli di 11 e 9 anni, che non si accontenta del ruolo di breadwinner - . Il rischio è considerare questa situazione, in cui bambini e ragazzi stanno a casa, come una nuova normalità. Ma non è sano, non va bene, né per i bambini né per gli adolescenti né per le famiglie. Non possiamo accettare che si riaprano le scuole solo fino alla prima media”.

E gli adolescenti?

“Vedo spegnersi ragazzi che erano pieni di vita – racconta Elisa Denegri -. Noi in casa siamo in tanti e almeno ci facciamo compagnia, ma quando ho chiesto a mia figlia di venire in piazza con me per protestare mi ha detto che tanto non serviva a niente. C’è molta apatia, mentre nei bambini c’è più rabbia e aggressività. Ci sono compagni di scuola dei miei figli che vivono fra letto, scrivania e divano, in uno stato di chiusura e depressione. Mancano le relazioni e gli amici. C’è tanto accanimento sui più giovani, noi adulti non viviamo le restrizioni così duramente”.

Il problema degli adolescenti – che si trovano intrappolati nelle mura domestiche in un periodo della loro vita in cui avrebbero bisogno di tutt’altro (lo abbiamo raccontato qua) - non è tanto scalpitare per uscire di casa, ma rischiare di trovare piacevole la reclusione. C’è chi ha organizzato proteste davanti scuola o interviene alle manifestazioni, ma si tratta di una piccola minoranza.

“Serve l’intervento anche dei genitori dei ragazzi delle superiori – conclude Roberta Caprini -. Le risposte non possono essere solo individuali. La pandemia ci ha reso tanto più soli, ma solo collettivamente si risolvono i problemi”.

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