93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Cibo e parole. Siete pronti a rinunciare ai veggie burger?

Articolo. Mentre l’Europa discute se vietare i nomi meat sounding ai prodotti vegetali, vale la pena chiederci: davvero i consumatori non sanno più cosa stanno mangiando?

Lettura 3 min.

È di poche settimane fa la notizia che il Parlamento Europeo ha approvato un emendamento che mira a vietare l’uso di termini legati alla carne (come ad esempio burger, bistecca o salsiccia) per prodotti di origine vegetale, a partire dal 2028. Una news che ha acceso gli animi: se ne è discusso un po’ in tutta Europa. Qualche giorno prima la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si era espressa in merito, chiudendo una questione aperta dalla Francia qualche anno prima, stabilendo che si possono utilizzare le denominazioni meat sounding per prodotti vegetali a patto che gli ingredienti siano chiaramente indicati in etichetta, e che non ci sia alcun possibile inganno per il consumatore.

Ma tutto questo potrebbe cambiare a breve grazie alla nuova normativa, un po’ come successo per i prodotti vegetali sostitutivi del latte. Un regolamento UE del 2013 aveva infatti vietato l’utilizzo della parola latte per prodotti che non hanno origine da secrezione mammaria, che da allora vengono infatti chiamati «bevande a base di» (mandorla, avena, cocco ecc…). Sulla carta almeno, perché poi al bar ordiniamo ancora un «cappuccino con latte di soia». Le mosse del Parlamento UE hanno obiettivi specifici: proteggere i consumatori da possibili confusioni, salvaguardare i produttori tradizionali e difendere il valore culturale dei prodotti animali.

Va però specificato che, prima che la norma in questione diventi definitiva, serviranno negoziazioni con i 27 Stati membri dell’UE. Quindi, tranquilli, potete (per il momento) mangiarvi con serenità un burger di soia se vi va. Al di là delle battute, la questione è piuttosto seria e – se la direzione attuale verrà confermata – ci saranno dei cambiamenti che potranno impattare principalmente le confezioni dei prodotti che siamo abituati ad acquistare. Le parole sono importanti, noi giornalisti lo sappiamo bene. Così come lo sono la tradizione culinaria e il lavoro dei produttori. Ma soprattutto è fondamentale che la comunicazione ai consumatori sia corretta, senza dare spazio a possibili fraintendimenti. Ma siamo sicuri che chi vuole mangiare un succulento panino a base di carne di vitello non sia in grado di distinguerlo da un burger di soia, o viceversa? Vi dirò la mia. E lo vorrei fare facendovi alcuni esempi.

Quando ero piccola, e la domenica andavo a pranzo dalla nonna, sorridevo quando in tavola venivano proposti gli «osèi scapàcc» accompagnati dalla polenta. Mi divertivo guardando i miei cuginetti spaventati, convinti che la nonna avesse cucinato gli uccellini che cinguettavano allegri fuori dalla finestra. Ma no, erano semplicemente degli involtini di carne. E allo stesso modo ricordo lo stupore di quando, durante una passeggiata in Città Alta, per la prima volta vedevo i colorati dolci chiamati «polenta e osèi», nient’altro che pasta di mandorle, marzapane e cioccolato.

Da bambini si crede un po’ a tutto, anche alla fatina dei denti, a Babbo Natale e al mostro sotto al letto. Ma da grandi no, io credo che un adulto sia in grado di capire che esistono nomi di fantasia, e che come tali possono essere utilizzati in contesti diversi dal loro primo significato.

Se ci pensate bene, la nostra tradizione culinaria è ricca di casi simili. Sono sicura che almeno una volta nella vita avete mangiato il salame al cioccolato senza pensare di metterlo in un panino. Sono altrettanto certa che sappiate che le fave dei Morti sono dolcetti che si mangiano a novembre (e non dei legumi), che lo zuccotto è un soffice impasto ripieno di gelato o semifreddo, che la colomba è un soffice lievitato e non un arrosto di pennuto. Potrei continuare con la zuppa inglese (che è un dessert, non una minestra), con l’hot dog che no, non è un cane, e con la colla di pesce, una gelatina che si ottiene da cotenna e cartilagini di bovini e suini. Cosa dire poi di quelle pietanze che prendono nomi da luoghi… da cui non provengono! Il pan di Spagna, ad esempio, è nato in Italia, e la genovese è un ragù che si cucina a Napoli.

Dopo questa carrellata di esempi, provate a rispondere nuovamente alla mia domanda: pensiamo davvero che un consumatore non sia in grado di distinguere un burger vegetale da uno di carne? E qui non si tratta solo del nome. I prodotti vegetali hanno solitamente un packaging ben evidente, con colori e simboli che richiamano il mondo veggie, e al supermercato sono posizionati in aree dedicate, lontani dai loro “fratelli” animali.

Vedete, io per prima sono convinta che sul cibo non si possa scherzare, che sia importante chiamare ogni cosa con il proprio nome e poter scegliere ciò che vogliamo mettere in tavola senza fare confusione. Ma più che a concentrarci sul «come» vengono chiamati gli alimenti, credo che sia fondamentale, in primis, conoscere da «dove» vengono i prodotti e «cosa» realmente stiamo mangiando.

Approfondimenti