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Tour a colori fra le facciate dipinte di Bergamo (o almeno ciò che ne rimane)

Guida. Racconti affrescati campeggiavano sui palazzi delle istituzioni e su quelli della nobiltà e dei borghesi benestanti. Nel 1477 il Bramante, ad esempio, dipinse la faccia di Palazzo Podestà: sono diversi gli esempi di cui oggi rimangono tracce interessanti

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San Michele al Pozzo Bianco

Chi sospetta che Città Alta, oggi gioiello di pietra, un tempo fosse tutta a colori? Sapete che fu un giovane Bramante a innescare il fenomeno delle facciate dipinte lasciando sul Palazzo del Podestà la sua prima, eccezionale prova?
Delle colorite facciate che si squadernavano da Piazza Vecchia per poi addentrarsi nei vicoli, molto è andato perduto – come è accaduto anche in altre città dipinte – tra deperimento naturale, rifacimenti e distacchi conservativi. Eppure una passeggiata col naso all’insù ancora rivela alcuni suggestivi brani che punteggiano diversi edifici, ultime tracce di quella che fu la straordinaria e irripetibile identità visiva della città nel Rinascimento.
Frammento per frammento, proviamo a ricomporne la visione, quando lungo i vicoli si srotolavano facciate “parlanti” di storie sacre e profane, prestigio sociale e virtù di governo.

Bramante in Piazza Vecchia

L’assoggettamento a Venezia, nel 1428, genera per Bergamo una ridefinizione dello spazio cittadino, a cominciare dalle residenze scelte dai rettori veneti: il capitano nella Cittadella e il podestà nell’edificio che chiude il lato occidentale di Piazza Vecchia, costruito alla metà del Trecento dalla famiglia Suardi.
È così che la Piazza si trasforma da luogo mercantile a palcoscenico del potere, che comincia a punteggiare la città delle proprie insegne: i Leoni di san Marco e gli stemmi dei rettori inviati dalla Serenissima, rinnovati a ogni cambio delle cariche.

Unico, e purtroppo pressoché dimenticato dal grande pubblico, fu il caso della eccezionale facciata “parlante” affrescata nel 1477 sulla lunga facciata del Palazzo del Podestà in Piazza Vecchia da Donato Bramante che – destinato a diventare uno dei maestri del Rinascimento – per la prima volta compare qui alla ribalta della storia.
Il committente dell’opera, e forse ideatore dell’originale scelta iconografica, è Sebastiano Badoer, podestà di Bergamo ma anche uomo dotato di una profonda cultura umanistica. Obiettivo: l’autocelebrazione pubblica della supremazia culturale di Venezia e le fondamenta etiche del suo potere.

L’intera facciata della residenza del Podestà veneto, anonima e asimmetrica, venne rivestita di pitture che la trasfiguravano completamente, in una impresa sbalorditiva per modernità, potenza illusionistica e forza cromatica. All’architettura reale si sovrapponeva un’architettura dipinta che incastonava, tra le vere finestre del palazzo, finti spazi aperti su cieli azzurri, abitati da figure gigantesche: i Sette Saggi tramandati dall’antichità greca accompagnati dai loro motti filosofici appuntati su cartigli, libri e tavolette.
Solone, Epimenide, Pittaco, Periandro e Chilone – queste le figure che oggi possiamo identificare – scrutavano dall’alto i cittadini orobici, celebrando la saggezza, la ragione ma anche la fermezza, se necessario spietata, del governo della Serenissima.

I tredici frammenti della gigantesca decorazione che sono giunti fino a noi furono scoperti sulla facciata nel 1927, strappati e collocati nella vicina Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione, dove ancora oggi si osservano. Un rebus che nella primavera 2018 il progetto “Bramante a Bergamo e la città a colori”, promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo (e curato da chi scrive), ha provato a sciogliere proponendo tutte le sere un video mapping che ha riacceso sulla facciata del Palazzo del Podestà la grandiosa scenografia prospettica ideata da Bramante. Proponendone una suggestione complessiva che tiene conto delle ipotesi di ricostruzione del ciclo affrescato più accreditate.

Sulle tracce della città a colori

Bergamo era una città dipinta. Non solo le istituzioni, ma anche nobiltà e borghesi benestanti si autorappresentavano sulla scena cittadina dipingendo le facciate delle loro dimore. Venezia e Milano erano i due poli di riferimento per l’ispirazione dei frescanti locali. L’arteria principale (l’attuale via Gombito – via Colleoni) si apriva e terminava con due esempi influenzati dal linguaggio lagunare. Affrescata all’inizio del Cinquecento, la “Casa veneta”, le cui finestre ancora oggi presentano una impronta gotica di ascendenza veneziana, era decorata con vedute di Venezia, oggi non leggibili, mentre ancora si intravedono nei due fregi su fondo rosso i volti dipinti entro tondi, tralci vegetali e figurette mitologiche. Nello stemma, la presenza di una botte avverte che qui dimoravano i Bottani, importante famiglia mercantile.

All’estremità opposta, in piazza Mascheroni, dove sorgeva la “Loggia” mercantile con magazzino delle granaglie, si distinguono tracce affrescate dal bergamasco Giovanni Cariani (1521): due teste del Leone di san Marco e un busto maschile monocromi, una scena mitologica con una ninfa afferrata da un satiro, un flautista nell’angolo e una lunetta con due mercanti fra sacchi di granaglie.

A destra della torre di Cittadella, l’unico affresco superstite di una serie di quattro “Favole dell’Ariosto” databili al tardo Cinquecento. Oltre la torre, sul fronte ovest di Piazza Cittadella, sono ancora visibili le insegne dei rettori veneti che governavano la città.

L’aspetto variopinto del centro antico si può oggi solo intuire perché l’azione del tempo e la corrosione dell’inquinamento atmosferico stanno intaccando gravemente le superstiti tracce che punteggiano le vie cittadine. Ma armati di curiosità e aguzzando lo sguardo possiamo ancora cogliere tracce importanti e immaginare la visione complessiva.

Sulle facciate di via Colleoni si intravedono ancora bugnati a graffito (via Colleoni 3d, 1c) o illusivamente in rilievo con tanto di proiettili di bombarde, come sulla casa di via Colleoni 3: così i Suardi avvertivano i malintenzionati di essere una famiglia potente e di avere una dimora inespugnabile.

Figurazioni di uomini armati e un paggio che regge un Leone alato di san Marco (c. 1495) spiccano sulla “Domus mercatorum” di via Gombito 3-5. L’insolita presenza di un gambero è la “firma” della famiglia Gambirasio, capaci mercanti i cui commerci prosperavano sotto il governo di Venezia.

Il nome della famiglia, residente nel palazzo di piazza Mercato del Fieno, ancora oggi è “ricamato” da un elegante motivo a intreccio di derivazione bramantesca in cui compaiono i volti delle Muse, con le lettere cifrate nascoste nella decorazione: ML, Palazzo Morandi Locatelli.

Sempre nell’orbita della cultura milanese che ruotava attorno a Bramante erano gli affreschi di via Porta Dipinta raffiguranti rispettivamente un Gruppo di cavalieri – derivato dall’incisione Prevedari di invenzione bramantesca (post 1481- inizi ’500, casa già Da Terzo, via Porta Dipinta 18) – o la Madonna in trono col Bambino che abita una volta cassettonata con San Cristoforo, attribuita al bergamasco Giacomo Scanardi e affrescata sulla facciata della casa del Vicario attigua alla chiesa di San Michele al Pozzo Bianco.
E ancora: le Scene di pubblica carità dipinte sulla fronte esterna dell’ospedale di Santa Maria Maggiore in Antescolis (fine ’400, in via Arena 16-18-20, ora conservati in casa Angelini) e la sequenza di teste di Santi racchiusi dentro oculi scorciati e accompagnati da un fregio a girali, databili all’inizio del ’500, che corrono sopra il portico riscoperto alcuni decenni fa sul fianco della chiesa di santa Grata “in columnellis” di via Arena.

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