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#coseserie: «Everything now». Se la vita (s)corre, fermati e prendi fiato

Articolo. La storia di Mia Polanco, che segna il debutto alla regia di Ripley Parker, è disponibile su Netflix da inizio ottobre. Un racconto che parla di salute mentale, adolescenza, disturbi alimentari e del coraggio di perdersi per ritrovarsi

Lettura 5 min.

Lo ammetto: anche se ho quasi trent’anni credo di essere un’addicted dei teen drama. O, per uscire dallo slang dei dipendenti dalle serie tv, delle rappresentazioni mediali che parlano di adolescenti.

Forse non accetto l’idea che sto diventando adulta o forse ho semplicemente bisogno di identificarmi in tutte quelle emozioni autentiche, in quella frenesia e quell’incertezza che sono tipiche di quest’età. Parlo di serie tv come «Prisma», «Mare Fuori», «Skam», «Euphoria» e la gettonatissima e coloratissima «Sex Education» di cui è stata da poco rilasciata l’ultima stagione che è anche quella conclusiva di tutta la serie (ahinoi).

Le atmosfere di «Everything Now» sono quelle inclusive e colorate delle precedenti appena menzionate. Mia (Sophie Wild) è una ragazza di sedici anni che è appena stata dimessa dall’ospedale in cui era stata ricoverata per sei mesi per combattere i suoi disturbi alimentari. Ma al suo rientro niente è più come prima, perché tutti sono andati avanti. Lei, invece, sembra essersi persa tutto ciò che conta per essere esattamente come gli altri. Quindi decide di stilare una lista delle cose da fare: innamorarsi, dare il primo bacio, trasgredire le regole, avere una relazione.

Le vicende sono raccontate attraverso la tecnica del voice-over. La narrazione in prima persona conferisce alla storia credibilità e forza perché immergersi nell’interiorità del personaggio (e nello specifico nella fragilità della mente di Mia) significa entrare in sintonia con tutte quelle sensazioni e quei sentimenti che preannunciavo all’inizio e che solitamente gli adolescenti tendono a reprimere per paura o per insicurezza.

Possiamo quindi sentire il terrore che si cela dietro ad un sorriso, le mille domande che le frullano in testa mentre risponde assertivamente a una richiesta, il rapporto conflittuale col cibo, che centellina ad ogni pasto. Mia ha un attenuante che col tempo diventerà un deterrente: si trova gettata in un mondo dal quale si sente tagliata fuori, imprigionata dentro a un corpo che vuole controllare a tutti i costi ma che non riesce a stare dietro alle sue continue richieste, di attenzione, di aiuto.

E così ci viene da ridere quando, durante il suo primo appuntamento col più figo della scuola, non sapendo cosa dire esordisce con un «Ci siamo già visti nudi, quando avevamo tre anni». Glielo aveva svelato sua madre poco prima di uscire di casa.

Guarire è una scelta (per cui bisogna combattere ogni giorno)

C’è un altro motivo per cui ho scelto di parlare di questa serie: mi è piaciuto il modo in cui allo spettatore viene data la possibilità di comprendere i meccanismi psicologici che si attivano in chi è affetto da disturbi alimentari.

Siamo con Mia quando si trova di fronte allo psichiatra con l’anima stravolta, mentre traccia la silhouette del suo corpo e realizza la vasta discrepanza tra la sua auto-percezione e la sua reale conformazione fisica. Siamo con lei mentre vomita di nascosto, mentre crede di essere guarita ma poi comprende che guarire è una scelta che si fa tutti i giorni. «Il dismorfismo corporeo è una condizione legata all’ansia in cui chi ne soffre sviluppa un’ossessione morbosa per i difetti percepiti soggettivamente. Man mano che il corpo comincia a perdere peso e massa ci vuole un po’ di tempo prima che la mente si allinei. Potresti faticare ad allineare la vista e la mente rispetto a quei tessuti corporei che non ci sono. È una potentissima, persuasiva e debilitante bugia».

Attorno a Mia abbiamo, poi, una serie di figure chiave che mettono da parte i loro problemi e le nascondono quello che provano perché l’unica cosa che conta è supportare il recupero della loro amica. Eppure, lei non riesce a vederlo, perseguitata da un continuo senso di colpa che le fa credere di essere sempre “quella anoressica” di cui tutti si prendono gioco o da proteggere ad ogni costo. È così che al di fuori della bolla emotiva della ragazza si sviluppano dinamiche non di secondaria importanza che sollevano interrogativi importanti come: fino a che punto dobbiamo nascondere alle persone che amiamo notizie che potrebbero alterare il loro equilibrio, fino a che punto essere sinceri con loro?

Ben presto mi sono resa conto che non riuscivo più a immedesimarmi in Mia, nel suo egoismo, nel suo non accorgersi di tutti i sacrifici che suo fratello, i suoi genitori e i suoi pari stavano facendo per lei. E qui non si trattava semplicemente del fatto che stavo guardando i capricci di un’adolescente. Ma piuttosto si trattava di prendere coscienza che anche io, come Mia, avevo paura di guardarmi allo specchio, di riconoscermi in lei. «Sono tornata al punto di partenza. Anzi, ora è peggio perché so che non c’è via di scampo. E mi sento così sola, non riesco a connettermi con le persone e non capisco perché».

Convivere con una malattia significa avere un compagno che non ti lascia mai da solo, tutti i giorni, tutto il giorno. Il fatto che il tuo dolore sia di natura psicologica non significa che non sia reale. Eppure, la ferma convinzione che chiunque non lo provi non lo possa capire, fa sì che ti ci aggrappi con tutte le tue forze. Lo tieni per te.

Mia, però, fa una scelta coraggiosa, perché nel momento di maggiore difficoltà, quando si accorge di stare per mollare, decide di chiedere aiuto.

Inclusivo, troppo inclusivo

Forse, uno dei punti deboli della serie risiede proprio nella scelta di un’attrice a cui basta un po’ di trucco e una spolverata di brillantini per esprimere una bellezza desiderabile. Si tratta di un dettaglio non secondario, in quanto il percorso di recupero del personaggio viene anche esplorato attraverso la sua capacità di trovare l’amore e sperimentare la sessualità, aspetti che risultano inevitabilmente più accessibili grazie al suo aspetto. Esplorare le sfide di un personaggio più realistico avrebbe potuto rendere lo show meno piacevole per il pubblico e di conseguenza meno attraente.

Similmente, la rappresentazione di inclusività tra i giovani personaggi, tipica di molte produzioni Netflix, evidenzia come la piattaforma abbia difficoltà a presentare un gruppo di giovani senza renderli iper-fluidi nel loro orientamento, accettando e innamorandosi di chiunque indipendentemente dal genere, senza mai esprimere dubbi o interrogativi in merito.

Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato in questa rappresentazione dell’inclusività: non è meno realistica della bellezza esagerata delle produzioni del passato. Tuttavia, queste scelte possono apparire un po’ enfatizzate in una serie che mira a trattare un tema tanto reale e significativo come l’anoressia. Il rischio è che un ambiente esteticamente piacevole e altamente inclusivo potrebbe non rispecchiare la realtà di molti spettatori che vivono situazioni simili, finendo per suscitare l’effetto opposto in chi si trova a confrontarsi con queste tematiche nella vita reale.

Dentro all’anoressia

La serie si focalizza non tanto sull’anoressia in sé, ma sulla fase di recupero e sul rischio di ricadute, esplorando il percorso di rinascita e la lotta continua della protagonista per mantenere un equilibrio nella sua vita dopo che ha toccato il fondo.

Nonostante l’importanza della questione, l’anoressia e i disturbi alimentari in generale non sono portati alla luce spesso nei media, in particolare nel cinema e nelle serie TV. Vengono privilegiati generalmente altri problemi adolescenziali, come l’abuso di sostanze o le questioni di identità di genere, che hanno ricevuto maggiore attenzione negli ultimi anni.

La scelta di mettere l’anoressia al centro della narrazione, delineando l’intera esperienza del protagonista attorno a questo tema, rappresenta sicuramente un atto di coraggio. L’anoressia è un argomento delicato, e c’è una linea sottile tra il rappresentarla in modo autentico e il rischiare di trattarla in modo grossolano o semplicistico. In questo senso, la sceneggiatura di «Everything Now» compie un lavoro notevole nell’esplorare la psiche di Mia e il suo percorso di cura.

Questo sforzo è cruciale in quanto ci invita a percepire le sfumature e le fratture, presentandoci una realtà mentale che esiste e mostra una sua coerenza, una volta comprese le fondamenta psicologiche su cui si fonda. Queste basi toccano vari aspetti come la relazione con il proprio corpo, il giudizio altrui, la sfida di riconoscersi come vittime. La vera essenza di «Everything Now» risiede soprattutto nell’arduo impegno di ampliare la nostra consapevolezza su situazioni che normalmente non affrontiamo, ma che è importante comprendere, nonostante le restrizioni imposte dal medium della fiction.

Sebbene sia quindi legittimo sollevare dei dubbi su quanto «Everything Now» rappresenti fedelmente la realtà nei temi trattati, la serie ci guida nel mettere in discussione i nostri pregiudizi, sfidandoci a adottare prospettive diverse e a volte scomode. Come è successo a me che, finalmente, dopo tanto tempo, mi sono guardata allo specchio.

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